I.B.A.
Istituto di Bremologia Applicata
SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE TRIENNALE
Master in counseling olistico
“ IL COUNSELING OLISTICO OGGI “
Relatrice Correlatore
Dottoressa Serena
Forgittoni Professor Adriano Bugliani
Direttore didattico
Dottor Valerio Sgalambro
Firenze, 21 Dicembre 2008
IL COUNSELING OLISTICO OGGI
“ Ricordate che vivete un momento eccezionale
in un’epoca senza eguali …
che avete questo grande privilegio inestimabile …
...l’essere presenti alla nascita di un nuovo mondo “
La Madre, Aurobindo Ashram
INTRODUZIONE
Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo.
“Uccidere
il Buddha quando lo si incontra significa superare il mito del maestro, il mito
del guru, il mito dello psicoterapeuta. Significa rinunciare al ruolo di
discepolo e distruggere la speranza che qualcuno all’infuori di noi possa
essere il nostro padrone “.
Così Sheldon Bernard Kopp, insegnante di psicoterapia e scrittore,
interpreta questo antico koan giapponese.
Nessuno all’infuori di noi può essere il nostro padrone né,
aggiungerei, il nostro salvatore.
Da sempre l’uomo va alla ricerca di qualcosa: dell’armonia, della
pace, della felicità, dell’amore, dell’immortalità, della salvezza,
dell’illuminazione, della conoscenza… o, quantomeno, di un senso da attribuire
alla sua vita su questo pianeta.
In questa ricerca, tuttavia, spesso si è confuso il fine, la
conoscenza, con il mezzo, l’apprendimento con le relative tecniche.
Molti uomini hanno finito con il concentrarsi sull’apprendere
qualcosa da qualcun altro, attribuendo a quest’ultima figura il ruolo di
insegnante, maestro, guida spirituale, ritrovandosi, poi, colmi di nozioni
teoriche, le quali, pur essendo estremamente interessanti ed affascinanti, poco
potevano aiutarli nei momenti di sconforto.
E’ andata, così, costituendosi una gerarchia che vedeva il
discepolo, situato ad un livello inferiore rispetto al maestro, considerare i
suoi insegnamenti come regole assolute ed universali.
Anche noi da bambini avevamo bisogno di figure di riferimento che
ci aiutassero a comprendere il mondo che avevamo intorno e dentro di noi: i
nostri genitori, i nonni, gli insegnanti, o altri personaggi.
Ma, quando arriva il momento, il bambino diventa adulto e si trova
a dover rispondere da sé ai quesiti e alle situazioni che la vita gli propone.
Ecco che si rende necessario che egli stesso diventi regista della
propria vita.
Si tratta di un cambiamento del nostro punto di vista rispetto
alla realtà: crescendo, ci rendiamo conto che cercare le risposte nel mondo
esterno è utile, ma non basta.
Ci sono territori sconfinati da esplorare dentro di noi, nel
nostro mondo interiore.
Uccidere il Buddha vuol dire smantellare la nostra convinzione di
poter trovare tutte le risposte nel mondo materiale esterno, per iniziare a
volgersi finalmente verso la propria interiorità, non per uniformarla a un
Buddha immaginario, perfetto, esterno e diverso da noi, ma per conoscerla così
com'è, senza volerla a ogni costo modificare, creando, così, uno spazio in cui
il cambiamento di prospettiva diviene possibile e realizzabile, oltre che
auspicabile.
Nel momento in cui vogliamo intraprendere un viaggio nel nostro
mondo interiore, ci troviamo all’ingresso di un labirinto, costituito da strade
nuove, mai percorse in precedenza, un groviglio di sentieri misteriosi.
All’interno di esso può succedere di ritrovarci in un vicolo
cieco, senza sapere come ci siamo arrivati: il fatto di vedere davanti a noi un
muro insuperabile può provocarci una certa inquietudine.
E’ a questo punto che nasce in noi il bisogno di chiedere aiuto.
“ Ciò che induce una persona a chiedere aiuto è la percezione, più
o meno chiara, di uno stato di crisi e, al tempo stesso, della propria
incapacità di porvi rimedio basandosi esclusivamente sui propri mezzi “ .
In realtà, quando ci rivolgiamo a qualcuno non abbiamo garanzie di
soluzione. Possiamo avere aspettative, ma queste sono soltanto illusioni di
garanzie.
L’aspettativa è uno di quei casi in cui il pensiero si proietta
nel futuro, o, comunque, in qualcosa di “altro” da noi, con il desiderio di
creare una boa di salvataggio cui potersi appigliare in caso di naufragio.
Dice un artista del nostro secolo: “ No one but ourselves
can free our mind “ .
Gli unici che possono liberare la nostra mente siamo noi stessi…
che è un po’ come uccidere il Buddha.
Chi, in fondo, ci conosce meglio di noi stessi?
1. IL COUNSELOR
1.1 Dalla psicoterapia al counseling
Psicologi e psicoterapeuti si occupano di psicopatologie, ovvero
di tutti quei disturbi della mente che si manifestano senza che il cervello
presenti una disfunzione fisiologica.
Il dizionario italiano alla parola ‘patologia’ riporta: “insieme
di condizioni anomale nel funzionamento di un organismo“.
Se lo psicoterapeuta condivide questo presupposto, deve anche
ritenere che davanti a sé, cioè dall’altra parte della scrivania, si trovi un
individuo in un certo senso anomalo: questa parola, dal greco, significa,
letteralmente, non – uguale...
Il passaggio da anomalo ad anormale, cioè non conforme alla norma,
è tanto breve quanto problematico, in quanto il concetto di ‘normalità’ non
sempre è condiviso da tutti...
Di solito una persona si rivolge a uno di questi professionisti
perché avverte un disagio: può sentirsi sotto pressione, in ansia; può
oscillare repentinamente tra uno stato emotivo e un altro, senza riuscire a
mantenere il controllo delle proprie emozioni e reazioni; può soffrire di
insonnia o avere un rapporto compulsivo nei confronti del cibo; spesso è colto
dai cosiddetti attacchi di panico, oppure non riesce a sganciarsi da
determinate fobie che lo perseguitano da anni; sempre più spesso il disagio
riguarda la sessualità e il rapporto con il partner, o con il denaro;
personalmente, mi è capitato di conoscere una donna che non riusciva a smettere
di canticchiare durante l’intera giornata...
Figli che odiano i genitori, genitori invidiosi dei propri figli,
madri iper-protettive e padri assenti o violenti; sentimenti di astio e
vendetta; gelosie senza fondamento; manie di persecuzione; fissazioni riguardo
alla pulizia; abitudini compulsive... e chi più ne ha più ne metta.
I soggetti che si rivolgono a questa categoria di professionisti
vengono definiti ‘pazienti’.
Il paziente, per definizione, patisce, cioè subisce qualcosa
contro la propria volontà, una forza che non sa riconoscere perché agisce dal
profondo del suo inconscio: ciò gli procura molta frustrazione, ansia e
inquietudine.
Patire e compatire sono due azioni strettamente collegate tra
loro: se il terapeuta compatisce il paziente, che già patisce per se stesso,
allora la via per uscire dal tunnel si allunga, e si allunga con essa il
percorso terapeutico. Non è raro, infatti, che una persona segua una
psicoterapia per anni, senza riuscire a individuare, a
penetrare e intaccare il nocciolo del proprio malessere.
Nel concetto di com-passione, cioè patire con l’altro, insieme all’altro, è sottintesa una certa
giustificazione della sofferenza stessa.
Più che di compassione c’è bisogno di comprensione.
Se il terapeuta dimostra di condividere il disagio del suo
paziente, è come se, in qualche modo, contribuisse ad alimentarlo, seppur
inconsciamente; alimentando la causa del disagio, questo viene a configurarsi
come un qualcosa che si espande, apparendo così al paziente molto più grande di
ciò che realmente è: di conseguenza egli si sentirà ‘piccolo e nero’, e tanto
impossibilitato quanto incapace di uscire dal suo tunnel.
Non bisogna trascurare il fatto che spesso alcune persone si
crogiolano all’interno dei propri problemi e non hanno la minima intenzione di
abbandonarli, perché ciò comporterebbe una rivisitazione completa della loro
vita e dei valori su cui essa si fonda.
In molti casi, quando una terapia si protrae nel tempo senza
ottenere risultati tangibili, è possibile che si sia instaurato un legame di
dipendenza del paziente dal terapeuta o, circostanza ancora più grave,
viceversa.
Il fatto che la terapia si protragga così a lungo, senza che il
paziente riesca ad uscire dai propri vincoli, dimostra che non conta tanto la
quantità di tempo impiegata negli incontri, bensì la qualità dell’incontro
stesso, la qualità dell’ascolto: ecco perché si dà tanta importanza alla
cosiddetta ‘empatia’.
Proprio questo ruolo che lo psicoterapeuta, occupandosi di
patologie, ricopre, presuppone un percorso formativo diverso da quello che
conduce alla professione di counselor.
Lo psicoterapeuta percorre la strada della formazione accademica e
nozionistica, perché lavora su patologie ben identificate, schedate, inserite
in apposite griglie, non sempre facili da interpretare: deve studiare le
teorie, gli schemi e i protocolli cui poter, in seguito, fare riferimento; deve
imparare a utilizzare una nomenclatura costruita dai suoi predecessori che
hanno impiegato un’infinità di tempo a de-finire i tratti comportamentali degli
esseri umani: in pratica finisce per doversi districare in una giungla di modelli
e paradigmi.
Il counselor, invece di occuparsi di patologie, focalizza la sua
attenzione sulla parte sana della persona; si occupa, fondamentalmente, della
sua Salute Globale.
1.2
La formazione del counselor olistico
Tre anni sono passati da quando per la prima volta ho varcato la
soglia dell’Istituto di Bremologia Applicata...
Stavo vivendo un momento particolare della mia vita:
apparentemente avevo tutto ciò che può essere importante per una ragazza di venticinque
anni – salute, tranquillità economica, affetti in famiglia, un legame
sentimentale, amicizie, buoni risultati negli studi universitari –, ma, in
realtà, tutto ciò non mi bastava per sentirmi completa; avvertivo che mancava
nella mia vita qualcosa di essenziale, che desse un senso più profondo alla mia
esistenza su questo pianeta e alle relazioni umane che avevo con le persone
intorno a me.
Un giorno, all’improvviso, questa strana parola – bremologia –, il
cui significato era per me del tutto enigmatico e misterioso, ha risuonato
dentro il mio essere in modo particolare, anche se non ancora ben definito: è
stato come ricordare la certezza di una constatazione, la sensazione chiara che
il mondo che mi circondava non fosse l’unico mondo possibile.
Così sono partita alla scoperta di nuove realtà.
Presentivo che sarebbe stata un’esperienza diversa da quelle che
avevo fino ad allora sperimentato: i soliti corsi in cui viene richiesto di
ripetere a memoria freddi concetti presunti fondamentali e imprescindibili,
professori che, invece di pensare alle nozioni che propongono e al modo in cui
le presentano, dis-pensano dispense aride e standardizzate, riproponendole,
copie in serie, sempre uguali ad ogni inizio di anno accademico, se non,
addirittura, per tutta la loro vita; compagni distanti, gelosi dei propri
appunti e delle proprie verità, mossi da un apparente interesse, che poi si
rivela finalizzato al mero conseguimento di un bel voto all’esame, come se
accumulando bei voti si potessero colmare brutti vuoti.
Qualche anno prima, nel bel mezzo della tempesta adolescenziale,
avevo avuto occasione di entrare in contatto con il mondo della psicoterapia
tradizionale, incontrando uno psichiatra prima e una psicologa poi.
I colloqui con questi personaggi sono sempre stati deludenti: al
pari delle dispense dei professori universitari, anche le domande che mi
rivolgevano i sedicenti esperti della psiche erano standard, piatte e fredde,
le loro voci, conformi ai dettami di un’etica professionale non originale,
incolori, lontane dal cuore e dai sentimenti, e vicine solo ai loro parametri
di riferimento e giudizio, ormai rigidi
e cristallizzati.
La sensazione che avevo parlando con loro era tutt’altro che
confortante: mi sentivo giudicata e in qualche modo in torto, come se il mio
comportamento e i miei pensieri non fossero “giusti”.
Ben presto abbandonai la via della psicoterapia tradizionale e
indirizzai le mie ricerche verso altri campi, stimolata da letture che mi hanno
avvicinato alla visione orientale del mondo.
Da quel momento in poi le coincidenze mi hanno portato ad
incontrare persone “diverse” dal solito, che mi hanno indirizzato a quelle che
oggi sono definite discipline olistiche: meditazioni, hata yoga, karma yoga,
rappresentazioni di psicodrammi, regressioni, incontri sciamanici,
bioenergetica, reiki, agopuntura, medicina ayurvedica, fiori di Bach, ecc....
Ero consapevole di essere alla ricerca di qualcosa, anche se
ancora non sapevo bene cosa.
In realtà cercavo l’origine e la direzione del mio movimento creativo,
la spinta del mio quantum leap, il
salto quantico, quello sviluppo di coscienza di quanti ancora non si
accontentano, di quanti, dalla bambagia ovattante di questa matrice
interpretativa, si stanno scavando un varco, di quanti sanno che l’umano essere
è sempre in continuo, anche caotico, movimento.
E’ a questo punto che il “caso” mi ha fatto incontrare la
bremologia, e questa mi ha ricordato che “caso” e “caos” non sono altro che due
anagrammi...
Il programma didattico dell’I.B.A. mi è sembrato un buon inizio,
perché prevedeva un approccio a tante materie diverse che miravano, comunque,
all’armonizzazione dei vari aspetti dell’essere umano.
Ora mi rendo conto della differenza tra le pratiche olistiche che
fino ad allora avevo sperimentato e la conoscenza acquisita in questi ultimi
tre anni di studio e di continue verifiche: invece di imparare che cos’è
l’olismo o pensare a cosa esso sia, ho imparato a vivere, sentire e pensare in
maniera olistica.
Credo che sia anche grazie a questo percorso formativo se ho
potuto verificare benefici effetti sul mio corpo, come, ad esempio, il
miglioramento della vista: alla fine di questi tre anni la mia miopia è passata
da 2,5 gradi a 1,5.
Forse il mio corpo mi sta dicendo che sto iniziando a “vederci più
chiaro”...
In questa nuova ottica, ho iniziato a mettere in atto una
riprogrammazione globale delle mie “credenze” personali, volta alla presa di
coscienza dei comportamenti umani, a tutti i livelli.
Ci sono pensieri più o meno frequenti che popolano la nostra
mente, come ci sono abitudini nella nostra routine quotidiana.
Tutti, credo, almeno una volta nella vita, abbiamo avuto occasione
di constatare la presenza di un qualche automatismo nei nostri comportamenti: cambiamo
la disposizione dei mobili di una stanza e notiamo che, soprattutto i primi
giorni, continuiamo a cercare un oggetto nel posto in cui eravamo abituati a
vederlo dove è stato per tanto tempo.
Credo che gli automatismi esistono sia sul piano del
comportamento-azione, sia su quello del pensiero: questi ultimi tendono a
restare celati più a lungo alla consapevolezza, rispetto ai primi, in quanto le
loro conseguenze sono più sottili.
Importante è saperli riconoscere, poi pian piano si impara a farci
amicizia, e ci si accorge di essi al loro primo apparire.
Personalmente, ogni volta che mi accorgo che un automatismo è in
atto, innanzitutto cerco di viverlo con coscienza, senza contrastarlo o negarlo
– altrimenti non avrei neanche la possibilità di vederlo –, restando il più possibile in contatto con le mie
sensazioni, presente a me stessa, osservando senza giudicare.
Questa osservazione priva di giudizio è un processo molto
difficile da attuare. Infatti, appena nasce un giudizio, questo mette in moto
una catena di pensieri che, a loro volta, ci distraggono dall’auto –
osservazione, perché vorrebbero essere seguiti nei loro labirintici percorsi…
A volte viene consigliata la meditazione come allenamento per
stare centrati sulle proprie sensazioni del momento: credo che sia un’ottima
palestra, ma non è da consigliare a tutti, né sempre utile o adeguata a
qualsiasi contesto.
Può succedere che lanciandosi nell’azione istintivamente, si
ottengano risultati equiparabili a ventiquattro ore di meditazione nel silenzio
e nell’immobilità…
Tornando agli automatismi, credo che, facendo comunque parte di
noi, non vadano etichettati come negativi; anzi, riproponendosi di tanto in
tanto, ci offrono un’ulteriore chance, così che noi possiamo provare e
riprovare infinite volte, fino ad essere soddisfatti del risultato ottenuto.
Di chance ce ne sono state molte e diverse... all’IBA...
Il “primo giorno di scuola” mi sono trovata in una grande stanza
insieme ad altre persone che, come me, apparivano curiose e spaesate, pur
essendo aperte all’ ignoto.
Eravamo tutti, compreso il docente, scalzi, seduti in terra,
disposti a cerchio, in modo da poterci vedere tutti reciprocamente.
Già solo questa sistemazione e questo “nuovo”, ma anche antico e
forse ancestrale, modo di rapportarsi allo spazio, lungi dai tradizionali
schemi scolastici e universitari, ha esaudito, in qualche modo, le mie aspettative,
e mi sono sentita, in un certo senso, come a casa.
L’ambiente intorno a me si configurava amichevole e aperto ad
accogliere qualunque nuova dinamica si presentasse: sensazione, questa, che ha
rappresentato il denominatore comune di tutti gli incontri successivi.
Secondo Carl Rogers, “i programmi per la formazione dei counselor
si devono basare essenzialmente su esperienze che formano all’essere ‘persona’.
(...) E sarà possibile farlo solo attraverso l’esperienza, cioè
immergendoli nello stesso clima di relazione – il clima necessario al
cambiamento – che sono lì per apprendere” .
E’ proprio così che si è svolto questo intenso percorso formativo.
Da quel momento ho potuto constatare che molte cose sono cambiate
nel mio modo di orientarmi nella vita, a cominciare Tornando agli automatismi,
credo che, facendo comunque parte di noi, non vadano etichettati come negativi;
anzi, riproponendosi di tanto in tanto, ci offrono un’ulteriore chance, così
che noi possiamo provare e riprovare infinite volte, fino ad essere soddisfatti
del risultato ottenuto.
Le parole non sono mai vuote, ma dense di significati non più
reconditi ed inaccessibili; così scopro, ad esempio, che forse non è un caso se
diciamo “orientare” e non “occidentare"...
Ecco dove la bremologia conduce: finisce addirittura per farti
riflettere sulle analogie grammaticali, ortografiche, di senso, o non-senso; e
dove la bremologia finisce qualcos’altro comincia. Cosa, quando e come questo
qualcos’altro comincia lo decidiamo noi. E forse lo abbiamo già deciso.
Io l’ho certamente deciso nel momento stesso in cui ho iniziato a
pormi delle domande, a voler “trovare un senso alla mia esistenza”;
interrogativo che mi sono posta fin da piccolissima, quando già sentivo una
tensione verso la conoscenza, di me, delle leggi della natura, del cosmo,
dell’Uomo.
All’inizio era una forte sensazione di curiosità, quando le
risposte che ricevevo non soddisfacevano le mie richieste: intuivo che c’era
molto altro da scoprire… e oggi mi ritrovo sempre più convinta a concordare con
l’autore che recita: “Il mondo è fatto più di spirito che di materia, e quello
che non si vede è più importante di quello che si vede”.
Nella maggior parte dei casi, l’anelito alla conoscenza parte
dall’uomo quando egli prova un qualche disagio, un proprio, strettamente
personale, bisogno di aiuto.
Per me è stato diverso: mi sono iscritta a questa scuola
innanzitutto per sperimentare me stessa, perché credevo di trovarvi molto
materiale su cui dispiegare le mie ricerche, e così è successo.
Non mi sono mai sentita delusa, ogni lezione mi ha arricchito, insegnandomi
e apportandomi sempre qualcosa di nuovo
da applicare nella mia vita quotidiana.
Un concetto che sono molto contenta di aver imparato in questi
anni è che la magia sta nelle cose piccole, invisibili, impalpabili: più esse
sono sottili, più la magia è acuta.
A volte vorremmo fare cose eclatanti, per essere considerati, per
soddisfare il nostro bisogno di apparire, o per sentirci potenti, o per non
sentirci impotenti.
Ma se, nel programmare un’azione grande, finisce per prevalere la
nostra parte razionale, ne conseguono le aspettative, e l’ansia di cui esse
sono portatrici non ci fa dormire.
Ho imparato ad accettare e a lasciar andare le cose così come
vanno, con la fiducia che vanno alla grande: tutto ciò mi appare, a volte,
commovente, perché mi sento tanto piccola, un puntino ino ino, eppure tanto
potente come non mi sentirei neanche se sollevassi l’Ayers Rock senza mani…
Un altro aspetto interessante del mio nuovo approccio
all’esistenza, appreso teoricamente e che mi sto allenando a mettere in
pratica, consiste nel considerare le
persone in un quadro più ampio: più complesse, con tutte le loro varie parti
che interagiscono, i condizionamenti, le diverse credenze, ma anche con il loro
cuore che ama, le loro potenzialità di crescita, la loro tenerezza...
Oggi, nella mia quotidianità, cerco di avere un’attitudine aperta
verso gli altri, considerando sempre la persona con cui
interagisco come un essere speciale.
Questo non è sempre facile, perché il mio io è sempre pronto a
giudicare e classificare; tuttavia, esercitandomi tenacemente a restare in uno
stato di osservazione consapevole, mi accorgo sempre più spesso quando scatta
la molla del giudizio e dei preconcetti, e semplicemente non seguo i pensieri a
essa collegati, ma cerco di rimanere nel presente ad ascoltare attentamente le
parole del mio interlocutore e anche a carpire i messaggi che egli invia con il
suo comportamento, la postura, il tono della voce, le sfumature del viso, la
direzione del suo sguardo: questo è un esercizio che, alla lunga, permette
anche di conoscere se stessi sempre più in profondità.
Durante questi tre anni abbiamo avuto modo di sperimentare noi
stessi attraverso una vasta gamma di esperienze dirette delle discipline che ci
venivano proposte; alcune mi hanno coinvolto in particolar modo, poiché mi
hanno offerto la possibilità di conoscere parti di me che prima erano sopite,
rimanendo potenzialità non attualizzate.
Anche il solo fatto di far parte di un gruppo eterogeneo di
persone è stata per me un’esperienza illuminante, dal momento che fino ad
allora ero sempre stata una ragazza solitaria, un po’ schiva, riluttante a dare
confidenza e ad aprirsi agli altri; basti pensare al fatto che durante tutti
gli anni di scuola non ho mai partecipato alle gite scolastiche, proprio perché
non mi trovavo a mio agio in mezzo a decine di ragazzini schiamazzanti, che i
professori insistevano caparbiamente a voler tenere in fila per due.
Recentemente, parlando con una mia compagna di corso, ho avuto la
conferma del mio diverso modo di contattare il prossimo. Lei mi ha ricordato
come ero tre anni fa: stavo tutta sulle mie, sembravo sempre pensierosa e
parlavo poco. “Guardati adesso, come sei diventata!” mi ha detto “Sprizzi
allegria e trasmetti il tuo brio anche agli altri!”. Aveva proprio ragione, e
se questo corso di studi mi fosse servito anche solo a questo, sarebbe valsa
comunque la pena – o, meglio, la gioia – di frequentarlo e di portarlo a
termine.
Il gruppo è un organismo, e, come tutti gli organismi viventi, è
in continua crescita e trasformazione: si configura volta per volta grazie alla
comune azione – non a caso “comun-ic-azione” (azione comune nell’hic et nunc) – dei singoli
individui che lo compongono. Questo percorso è come un’equazione che a volte si
sbilancia, per poi trovare un nuovo e diverso equilibrio, a seconda dei
movimenti energetici che si generano, al suo interno come all’esterno.
Non di rado, durante alcune lezioni, si sono aperte dinamiche che
finivano col coinvolgere più partecipanti: uno giudicava un altro e il resto
del gruppo si schierava dall’una o dall’altra parte, dopodiché qualcuno si offendeva
e infilava la via della porta, perché il caso che si stava considerando
risuonava con una sua problematica personale non ancora risolta; Tizio andava
in collera se la lezione non aveva soddisfatto le sue aspettative, allora
infieriva contro l’organizzazione della scuola; se Caio
arrivava in ritardo, c’era chi si sentiva infastidito dall’inevitabile interruzione
della dinamica in atto; a volte, se si instaurava una discussione più colorita
del solito, l’ego di uno poteva enfatizzarne un altro, cosicché si
trascorrevano minuti infiniti a disquisire su questioni di marginale
rilevanza...
In realtà, questi semplici e a volte banali episodi, esplorati a
fondo, ci hanno permesso di vedere, sperimentare e confrontare numerosi
archetipi.
Da attenti bremologi, non ci siamo mai lasciati sfuggire nessuna
occasione e le nostre intelligenze hanno cercato in tutti i modi di dare,
insieme, un senso – più o meno profondo, secondo i casi – alle esperienze che
stavamo vivendo: ciò ha comportato un minuzioso e profondo lavoro su noi
stessi, sia in quanto organismo-gruppo, sia come singoli individui che non
temono di mettersi in gioco e in discussione, con l’obiettivo di andare a sfiorare,
come accarezzandolo, il limite di percezione di noi stessi, nonché il limite
tra il sé e l’altro da sé.
Spostando i limiti si amplia la propria coscienza, si attivano
nuove sinapsi...
Ecco che, allora, si comincia a capire che ciò che ci disturba dell’atteggiamento
di un nostro simile altro non è che il nostro specchio, il nostro lato oscuro,
la nostra ombra.
Ma l’ombra non va esclusa, anzi va abbracciata e coccolata; ci
rendiamo allora conto che si tratta di caratteristiche che fanno comunque parte
di noi, anche se fino a quel momento non le avevamo riconosciute in quanto
tali, ma che, grazie all’amorevole comprensione e accoglienza che ci viene
offerta, possiamo finalmente iniziare a integrare nel nostro essere.
Ci siamo sempre adoperati per armonizzare gli elementi
perturbanti, quelli che, mascherati da sentimenti di rabbia, gelosia, fastidio,
risentimento, intolleranza, presunzione, egoismo o indifferenza, non erano
altro che la manifestazione delle nostre barriere presenti lungo il cammino verso
una conoscenza che trascende anche noi stessi.
In questo viaggio verso l’Assoluto, scopriamo che ogni resistenza
può essere trasformata in occasione di crescita, imparando ad inserire anche i
più piccoli istanti di panico in un contesto molto più vasto, dove l’uno può
incontrare il diverso, per potervi dialogare aperta – mente.
Questa modalità di vivere il gruppo mette in pratica il famoso
adagio “uno per tutti, tutti per uno”: in fondo – come in superficie – la
visione olistica non è altro che questo.
Per dirla alla maniera zen: “quello che è fuori è dentro, quello
che è dentro è fuori”.
Sostituire agli obsoleti meccanismi di controllo e prevaricazione
una sinergica e consapevole collaborazione conduce rapidamente a intuizioni
precise e importanti, che aprono una nuova dimensione di esistenza, uno spazio
di libertà.
Da questo punto di coscienza, ci accorgiamo che vivere la libertà
vuol dire rinunciare a cedere alla tentazione di giudicare il prossimo, le sue
azioni e le sue idee, sentiamo quanto è più facile procedere nel mondo facendo
affidamento sul nostro intuito, vediamo la bellezza di rapportarci agli altri
con il cuore aperto, senza paura di sbagliare, con la fiducia e la certezza che
stiamo percorrendo la via della realizzazione dei nostri sogni.
Ricordo con tenerezza che durante il primo anno di corso c’era una
persona che proprio non sopportavo, mi infastidiva il suo tono di voce, i suoi
movimenti invadenti, la sua vicinanza...
Di acqua sotto al ponte dell’inconsapevolezza e della chiusura ne
è passata tanta, portando via con sé la mia rigidità.
Già al secondo anno, quando arrivavamo in “aula”, entrambi ci
salutavamo con baci e abbracci, andavamo a pranzo insieme, ci scambiavamo
pareri raccontandoci le novità.
Questo cambiamento ha
segnato la misura della mia flessibilità, che mi ha permesso di abbracciare ciò
che prima mi infastidiva e di provare l’affetto incondizionato.
Gli orientali dicono che “il cambiamento è l’unica cosa che non
cambia mai”.
Hanno ragione: il segreto è assecondarne i movimenti e le
direzioni, come quando danziamo e il nostro corpo segue la musica, o segue il
silenzio, o segue i moti della nostra anima, o qualsiasi cosa stia seguendo,
anche se non segue niente...
Questa straordinaria sensazione l’ho provata sperimentando la trance dance.
All’inizio delle due giornate dedicate a questa disciplina ci è
stato anticipato che avremmo danzato per quattro ore di seguito. La reazione di
tutti è stata di incredulità: “Come è possibile? Io non faccio attività fisica
da anni! Io non ce la faccio”... e via blaterando.
In realtà queste erano soltanto convinzioni mentali, perché alla
fine delle fatidiche quattro ore nessuno di noi si sentiva neanche lontanamente
stanco, anzi eravamo galvanizzati da un’energia di euforica vibrazione.
Per eseguire questo tipo di danza, completamente libera
nell’espressione corporea, nei movimenti e nelle tempistiche, è fondamentale
respirare, come per lungo tempo, dovendo
seguire i ritmi frenetici imposti dalla società moderna, ci siamo diseducati a
fare: è necessario recuperare il contatto con il nostro respiro, che funge da
ponte tra il nostro mondo interiore e il mondo esterno.
Di solito diamo per scontato il fatto di respirare, lo
consideriamo un semplice meccanismo automatico solo perché è gestito dal nostro
sistema vegetativo: questo funziona, sì, a prescindere dalla nostra volontà, ma
bisogna capire che ci sono molti livelli di funzionamento.
Per assicurare la sopravvivenza basterebbe respirare in modo
superficiale, ed è così che facciamo per la maggior parte della nostra vita: ci
accontentiamo di quelle “poche” molecole di ossigeno su cui si basa la dieta
delle nostre cellule del terzo millennio.
Imparando a gestire il nostro respiro in maniera consapevole,
scopriamo che possiamo introdurre nel nostro corpo maggiori quantità di
ossigeno rispetto a quelle cui siamo abituati, così ogni nostro apparato può
assolvere alle sue funzioni in modo più sano: trasformando il nostro respiro,
infatti, possiamo fare in modo che esso diventi una fonte di guarigione
psico-fisica.
Una buona ossigenazione permette al nostro corpo e alla nostra
mente di raggiungere livelli performativi più alti e con meno fatica.
2. LA RELAZIONE D’AIUTO
2.1 Verso un ascolto a misura d’uomo
Nel libro La terapia
centrata sul cliente: teoria e ricerca, Carl Rogers definisce la relazione
d’aiuto “ una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una
o in ambedue le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del
soggetto e una maggiore possibilità di espressione ”
L’obiettivo del counselor all’interno di una relazione d’aiuto è,
in definitiva, offrire a chi si trova in una situazione di momentanea
difficoltà uno spazio in cui poter esplorare le potenzialità per superare la
condizione di disagio e le possibilità di uscire da una situazione di impasse.
Una volta terminato il percorso formativo, il counselor sceglie il
proprio campo di azione, delineando la sua specificità professionale: dopo aver
preso conoscenza dei modelli teorici elaborati e fissati nel corso della storia,
se ne emancipa e sviluppa un modus operandi che diventa originale e
prototipo.
Come l’allievo supera il maestro, così il counselor di oggi
ricerca l’accesso alla genuinità della persona.
E’ possibile instaurare una relazione d’aiuto con un singolo
individuo o con gruppi, nell’ambito della coppia, nella famiglia, nella scuola,
nella sanità, nelle aziende pubbliche o private.
Qualunque sia il suo territorio d’azione, il minimo comune
denominatore rimane sempre e comunque la capacità relazionale, che non consiste
semplicemente nel concedere uno spazio di tempo stabilito all’incontro, ma
necessita e presuppone un concetto di sintonizzazione profonda, non sempre
facile da raggiungere.
Affinché essa si realizzi sono necessarie tre componenti tra loro
intimamente connesse, che, a mio parere, sono da ritenersi fondamentali:
l’empatia, l’ascolto (nel suo duplice aspetto di ascolto di sé e dell’altro) e
la centratura.
La mancanza di questi elementi può dar vita a dei “cattivi”
counselor, che sono, appunto, quelli che non riescono a trovare la chiave
d’accesso al mondo dell’interlocutore, ossia del cliente che, per definizione,
non è mai “cattivo”.
La qualità della relazione d’aiuto è definita dal rapporto che si
stabilisce tra counselor e cliente, che deve essere alla pari, senza alcuna
forma di gerarchia, tra due persone che interagendo possono crescere insieme:
il counselor non dispensa consigli dall’alto né ricette per la felicità, non si
pone in una posizione di superiorità o di prevaricazione, non si ritiene il
detentore di una verità solo a lui rivelata e da lui solo posseduta: i due
protagonisti, divenuti occasionali compagni di viaggio, percorrono insieme un
breve o un lungo tragitto, diretti verso
orizzonti di vita più luminosi.
Tuttavia, c’è un sottile confine che stabilisce nettamente i ruoli
da interpretare da parte dei due attori.
Il counselor è
il focalizzatore, colui che ha la responsabilità della riuscita; egli è la
guida che accompagna l’altro verso la porta della consapevolezza; il cliente è
il solo che possa decidere di volere o meno varcarne la soglia che apre
l’accesso al suo mondo interiore; ed è sempre a lui che, una volta individuato
il sentiero del suo personale sviluppo, spetterà di percorrerlo con le proprie
gambe o di non percorrerlo affatto.
Prima ancora di
poter aiutare gli altri, però, è assolutamente necessario che chiunque voglia
diventare un bravo counselor, inizi con l’aiutare se stesso, effettuando un
percorso interiore di conoscenza profonda e di consapevolezza di sé, per imparare
a riconoscere e a gestire le proprie dinamiche personali, nella loro globalità.
“Per rendere più
felice il mondo dobbiamo cominciare da noi stessi, facendo il necessario per
essere felici”.
In questo
lavoro di conoscenza e rinnovamento egli acquisirà anche maggiore sensibilità,
affinerà le sue capacità più sottili e potrà accostarsi ad affrontare una
relazione d’aiuto con maggiore saggezza e trasparenza: soltanto così essa
risulterà pulita ed efficace.
Se non si è
lavorato abbastanza su di sé si possono correre molti rischi, che andrebbero a
minare le basi dell’ascolto e che risulterebbero
controproducenti ai fini del percorso di crescita.
Un counselor
consapevole rimane ancorato al proprio centro, evitando, così, di entrare in
una qualche sub-personalità, di identificarsi in figure archetipiche, come può
essere quella del Salvatore, e di farsi coinvolgere e trascinare dalle emozioni
che il cliente evoca.
Noi siamo stati
abituati a considerare il concetto di aiuto come qualcosa che viene dall’esterno,
un porgere la mano per sostenere, soccorrere, proteggere, assistere, facilitare
o togliere qualcuno da una situazione di estrema difficoltà. E quello che
chiede si pone passivamente in un atteggiamento di ricezione, affidandosi
completamente alle mani del provvidenziale salvatore: non c’è azione, ma solo
un lasciarsi manovrare da qualcuno che in quel momento riteniamo più forte e
più capace.
Consegniamo,
così, il nostro destino alla perspicacia, o almeno presunta tale, di un
improbabile liberatore, il Deus ex
machina padrone, in quel frangente, della nostra sorte.
In questo caso,
allora, l’altro, il salvatore, si sente autorizzato ad appropriarsi della
nostra vita e decidere al posto nostro ciò che è giusto o ciò che è sbagliato.
Ed è spesso
proprio in tal modo che agiscono alcuni terapeuti, ma non solo, anche alcuni
educatori, maestri o gli stessi genitori.
Ognuno ha la
propria idea del concetto di aiuto e, naturalmente, colui che si offre di
salvare lo sventurato di turno, lo fa, in buona fede, nel modo migliore, con
gli strumenti che egli solo conosce e che è pronto ad elargire, generosamente,
a piene mani.
Ma per quanto
possa essere sincera l’intenzione, essa da sola non è sufficiente a rendere
valida l’azione, a meno che non sia sostenuta da quelle qualità e attributi
essenziali di cui parlavo, prima fra tutti l’empatia: quella profonda capacità
di sentire, intuire e riconoscere quasi come proprio, il mondo interiore
dell’altro; abbandonare ogni schematismo razionale e aprirsi
all’altro ascoltandone il respiro, il ritmo del cuore, gli impercettibili
battiti di ciglia, quel moto involontario del labbro, il lieve tremolio delle
mani, quell’accomodarsi o quell’inarcarsi del tronco, quel volgere lo sguardo
altrove o fissarti direttamente negli occhi; comprendere quale disagio o quale
timida luce si sta facendo strada dentro la sua anima; percepire il fruscio delle
due anime, che all’improvviso si sfiorano e si riconoscono.
Ecco allora che
avviene quella sintonizzazione, quel ritrovarsi sullo stesso piano energetico,
diremmo, più materialmente, sulla stessa lunghezza d’onda: ed è proprio qui, in
questo attimo e in questo spazio, che il cliente vede l’altro nella sua vera
essenza, poiché nulla gli sta nascondendo, perché si mostra esattamente per ciò
che è, trasparente come acqua sorgiva, senza alcuna maschera, senza alcun
artefatto mentale: un’anima amorevole e disponibile ad ascoltare e accogliere
la sofferenza.
Allora può
sopraggiungere quel sentimento indispensabile che spalanca il cuore ed invita
all’apertura, alla confidenza, potrei dire alla confessione, perché è ora certo
che potrà mostrarsi senza paura, senza vergogna, senza timore di un giudizio:
la fiducia.
Così sintonizzato e immedesimato nella persona che ha di fronte,
il counselor riuscirà a percepire la medesima realtà: in questo modo può
suggerire le parole giuste per continuare l’esplorazione di sé.
Le espressioni verbali che si utilizzano – nella relazione
d’aiuto, come in tutte le circostanze della vita quotidiana – assumono una
valenza tanto più specifica quanto più alto è il nostro livello di
consapevolezza.
Le parole, come anche i pensieri, creano la realtà intorno a noi:
sono vibrazioni energetiche che danno forma alla materia: è per questo che la
sensibilità del counselor va allenata in modo da riuscire a intuire cosa si
nasconde dietro le parole, a percepire le sfumature dell’intenzione con cui è espresso
un termine, una frase, un concetto; oltre alle cose dette, il counselor deve
saper comprendere i silenzi dell’altro, altrettanto rilevanti nella produzione
di significato.
Dal suo centro
di coscienza, il counselor presta estrema attenzione da un lato ai segnali non
verbali che riceve dal corpo dell’interlocutore, dall’altro a che cosa risuona
dentro di sé mentre il cliente esprime il suo sentire.
Poiché ogni individuo è unico, ogni seduta di counseling si presenta come un evento anch’esso unico e
irripetibile: pertanto egli dovrà adeguare l’ascolto a ogni
singolo interlocutore, perché ognuno ha differenti modalità di sentirsi rispettato:
ad esempio, ad alcuni può far piacere essere toccati, altri assolutamente
evitano il contatto, quando non lo temono; alcuni preferiscono che, almeno
inizialmente, gli vengano poste delle domande, altri potrebbero interpretare un
atteggiamento di questo tipo come un’ invasione della propria privacy.
L’interlocutore va rispettato in ogni caso e in ogni senso: vanno
rispettati i suoi tempi, i suoi spazi e tutto ciò che lo riguarda.
Per quanto concerne il setting dell’incontro – l’ambiente che
accoglie, la disposizione della mobilia, l’illuminazione, il colore delle
pareti, la presenza o l’assenza di finestre, ecc... –, è preferibile offrire al
cliente più opzioni tra cui scegliere.
Per alcuni la classica sedia può risultare troppo rigida, altri
potrebbero chiedere esplicitamente di sdraiarsi, a volte una sistemazione a
terra può risultare invitante, altre volte potrebbe essere considerata come
un’alternativa troppo fuori dalle consuetudini.
D’altro canto, il mondo è bello perché vario, e non potrebbe
essere altrimenti.
2.2
Differenze tra percorso terapeutico e percorso di crescita: restituire il soggetto a se stesso
E’ importante imparare a servirci del nostro discernimento più
profondo per mantenere uno stato di salute e benessere, dal momento che fin
dalla più tenera infanzia, siamo sottoposti a una miriade di influssi.
Quelli che ci hanno segnato di più ci provengono dalle persone in
cui abbiamo riposto maggiore fiducia, come i genitori, gli educatori, i medici
o i sacerdoti…
Quanti commenti, emessi più o meno inconsciamente, influenzano lo
sviluppo fisico e psichico di un bambino, proseguendo, poi, anche in età
adulta!
La medicina, come anche la religione, nel modo in cui sono state
intese in occidente fino ad oggi, tendono a de-responsabilizzare l’individuo.
Il medico si prende cura della nostra salute fisica, del nostro
corpo, il sacerdote si prende cura della nostra anima; a questi poi si aggiunge
lo psicologo o lo psichiatra o lo psicoterapeuta, ai quali e’ demandata la cura
della nostra mente. Che cosa ci resta
allora?
Depauperati della nostra capacità di discernimento e di giudizio,
non siamo più in grado di ascoltarci e di provvedere così ai nostri bisogni e
al nostro benessere.
Gli educatori, in genere, ci hanno convinto che il meglio per noi
deriva dalle regole, uguali per tutti, che qualcuno ha preventivamente e
definitivamente stabilito...
In ogni occasione, per ogni decisione da prendere, c’è qualcuno
che ne sa più di noi, che è già passato attraverso quelle stesse esperienze e
ha in mano la soluzione perfetta ai nostri problemi...
E il nostro senso di responsabilità? La nostra capacità di
determinare momento per momento, giorno per giorno, la nostra vita, la nostra
felicità o la nostra infelicità?
Perché è proprio di questo che siamo intimamente e completamente
capaci e responsabili: siamo noi stessi i creatori della realtà, dentro e
intorno a noi; e più vivo e consapevole e’ il nostro senso di responsabilità,
più vera e concreta diventa questa possibilità.
Parlando di Responsabilità, la intendo nel senso di respons – abilitas, cioè la nostra
capacità, abilità, di rispondere alle situazioni che ci si prospettano e agli
stimoli che riceviamo.
Ma fin troppo spesso è più facile (o conviene di più) attribuire a
qualcuno, a un fattore esterno, ineluttabile e – perché no? – “Superiore”,
l’accadimento di certi avvenimenti,
specie di quelli più sgradevoli e dolorosi che nessuno vuole ammettere e
riconoscere di aver provocato con il proprio comportamento e con le proprie
azioni, nonché con i propri pensieri: “Come sarebbe a dire che mi sono
provocato da solo la mia malattia?”. “Allora è colpa mia!”.
Ed ecco che si insinua, subdolo, il senso di colpa!!!
In ultima analisi, siamo figli di una primitiva e retriva cultura
cristiano-cattolica, che ha seminato para-occhi
camuffati da parrocchie: educazione
più subita che ricevuta, che fin dalla nostra nascita, e più oltre ancora, ci
ha inculcato l’idea di essere in balìa di una Entità Superiore, padrona e
signora del nostro destino, in terra e in cielo, che analizza, giudica e
cataloga il nostro operato in base a leggi rigide e inappellabili, in base alle
quali premia o condanna; e la condanna sarà feroce: la dannazione eterna!
Più che a una religione questa assomiglia a una politica del
terrore.
Poste queste basi, di fronte a una situazione spiacevole, inattesa
e inspiegabile, automaticamente pulsano nella nostra mente quelle stesse
domande: “Dove ho sbagliato?”, “Allora è colpa mia!”. Oppure si propende per
cercare un responsabile esterno, considerato che un colpevole ci deve per forza
essere. Quando siamo afflitti da una qualche sofferenza ci colpevolizziamo,
credendo di essercela meritata, oppure accusiamo qualcun altro, se non Dio
stesso.
Ed è appunto con questo senso di colpa, sempre pronto ad occupare
la vastità della nostra mente, che viene sovente, purtroppo, confuso il
concetto di responsabilità, che racchiude invece un significato molto più
profondo e sottile, di consapevolezza, di integrità di giudizio verso se
stessi, di partecipazione e di padronanza della propria vita.
Ma è proprio questa confusione a rendere una certa realtà
difficile da accettare agli occhi di molte persone e che denota un’
incomprensione della legge di Responsabilità.
Non si riesce o non si vuole accettare la responsabilità delle
proprie azioni, soprattutto quando queste generano sofferenza e malattie.
E’ più facile, invece, ritenersi le vittime di un destino avverso
e feroce: ci creiamo così un alibi e continuiamo a giustificare le nostre
azioni evitando, ancora una volta, di farci carico delle nostre responsabilità
e della nostra vita.
In questo modo i nostri disagi e le nostre malattie, fisiche e
psichiche, non riconosciute e non accettate dalla nostra consapevolezza,
continueranno ad aggredirci e a perpetuarsi, finché ci svuoteranno di ogni
energia per affrontarle e risolverle e cadremo succubi di quel crudele destino
che continua a perseguitarci.
La guarigione del nostro corpo, inscindibile dalla nostra anima e dalla
nostra mente, deriva esclusivamente dalla consapevolezza del nostro senso di
Responsabilità. Da qui l’impostazione autonoma e volontaria delle nostre
azioni, dei nostri pensieri e dei nostri comportamenti che andranno a generare
le situazioni felici o infelici che di volta in volta sceglieremo di
sperimentare.
La legge di Responsabilità arricchisce l’essere umano di un immenso
e ineguagliabile privilegio, quello di disporre del libero arbitrio, quella grande facoltà che
rende liberi: liberi di scegliere le parole con cui esprimere le proprie idee,
liberi di agire o di reagire, di affidarsi o di sfidarsi, di scegliere i
compagni della propria vita o di sublimare il silenzio e la solitudine, di
partire o di restare, di prendere posizioni o di rimanere neutrali, di
coltivare l’amore per uno o per l’Universo intero, di cantare o di tacere, di
procedere o di fermarsi....
Qualunque sarà la nostra scelta, in qualunque modo decideremo di
vivere, non potremo sfuggire alle conseguenze delle nostre azioni, dei nostri
pensieri e delle nostre parole.
Così anche il “destino” viene a configurarsi sotto una nuova luce:
non è quella forza vendicativa che ci perseguita con la falce in mano e ci fa
vivere nella paura.
Il destino è un regalo di cui siamo noi stessi sia i mittenti che
i destinatari.
In quest’ottica, non ci stupiamo del fatto che non vi sia una
differenza sostanziale tra i miracoli e l’ordinario e potremo anche imparare a
considerare i sintomi come i messaggi che la nostra saggezza profonda ci invia
per mezzo del nostro corpo.
In questo quadro, la medicina tradizionale deresponsabilizza il
paziente: asportando il sintomo, facendo scomparire il dolore, toglie la
possibilità all’individuo di intraprendere quel percorso di ricerca del fattore
che ha generato il disturbo; percorso che è, invece, importantissimo, se non
addirittura essenziale, per lo sviluppo di un individuo, perché è la via della
sua crescita: attraverso questo viaggio con se stessi, si percorrono le rotte
della consapevolezza e si può ampliare la propria coscienza rispetto a quelle
domande universali che l’uomo non si stancherà mai di porsi: da dove
proveniamo, dove siamo e dove stiamo andando.
Senza la luce di questa consapevolezza, la vita si riduce a una
serie di dipendenze concatenate e incatenanti, a un brancolare nel buio,
nell’attesa di un buio ancora più buio, la morte, dopodiché… il nulla…
Non è sicuramente una prospettiva allettante.
Ma in fin dei conti, non è difficile capire il motivo dell’atteggiamento
della medicina tradizionale, così come quello della Chiesa: togliendo la
responsabilità individuale, l’uomo viene depauperato anche del suo Potere; è
più facile esercitare il controllo su una popolazione inconsapevole, piuttosto
che su uomini dotati di una coscienza evoluta e consapevolmente creativa.
Un percorso di crescita e sviluppo porta l’Uomo alla ri-presa
della propria sovranità personale, quella sovranità che aveva perso o era stato
condizionato a delegare a qualcosa o a qualcuno altro al di fuori da sé.
L’invito della nostra epoca è quello a non accontentarsi di un assestamento
dell’anima, quale ci viene proposto dall’aderenza ai dogmi della Chiesa, della
medicina “da asporto” e dei tecnocrati della psiche; ma ci incoraggia a percorrere
la via che ci conduce ad accarezzare la nostra anima, a prendercene cura invece
che curarla, a ri-conoscerla come la più potente compagna di un viaggio verso
la ri-scoperta della nostra vera natura.
3. LA VISIONE OLISTICA
Non possiamo più attribuire alle
emozioni minore validità che alla sostanza fisica e materiale, anzi, dobbiamo
considerarle segnali cellulari coinvolti nel processo di traduzione delle
informazioni in realtà fisica, che trasforma letteralmente la mente in materia.
Le emozioni nascono nel punto di congiunzione tra materia e mente, passando
dall’una all’altra in tutti e due i sensi e influenzandole entrambe.
3.1 Il concetto tradizionale di
malattia in rapporto a quello di salute olistica
Per la maggior parte del genere umano, accostare troppo la mente
al corpo significa mettere in discussione la veridicità di una qualche
malattia, insinuando il dubbio che essa possa essere non reale, immaginaria,
privata di quel fondamentale valore scientifico che oggi pretende ed esige la
scienza ufficiale accademica.
Se i contributi psicologici alla salute e alla malattia fisica
sono visti con sospetto, l’idea che l’anima, che i Greci denominavano Psychè, possa contare qualcosa, è
giudicata addirittura assurda.
Per questa strada entriamo, infatti, nel mistico, dove agli
scienziati e’ stato tassativamente vietato di addentrarsi a partire dal
Seicento, con Cartesio.
Le connessioni fra traumi interiori (lutti, abbandoni, tradimenti,
stress, disagi profondi) e lo sviluppo di malattie è una acquisizione ormai da
molti accettata.
La nostra mente, i nostri pensieri, le nostre emozioni, sono in
stretto rapporto con la malattia, sia nel generarla che nello sconfiggerla;
sono le emozioni stesse a unire fra loro corpo e mente: le connessioni fra questi
sono state studiate sin dagli albori della storia dell’uomo e della medicina,
sia in Oriente che in Occidente, anche se non sempre sono stati completamente
ben comprese: la dimostrazione di ciò risiede nel fatto che ancora oggi si
continua a discuterne.
Medici e filosofi si sono nei secoli concentrati, interrogati,
incontrati e scontrati nello studio e nell’interpretazione della vera natura
dell’uomo, della sua anima, della sua mente e sulle connessioni tra esse
esistenti.
Già nel 2500 a.C., in un papiro egizio, viene descritto il
cervello con i suoi solchi e le sue membrane. In esso viene utilizzata la
parola ib che, oltre a cervello,
significa anche mente e cuore. Tale ambiguità non è stata ancora chiarita.
Nel XIII sec a.C. Asclepio (Esculapio per i romani), inizia i suoi
sacerdoti all'arte della guarigione; le emozioni sono considerate come fattori
di malattia e le terapie sono integrate: poesia, musica, erbe e interpretazione
dei sogni.
Socrate (470 – 399 a.C.) sottolinea la necessità di curare lo
spirito e le emozioni di fronte alla malattia, precisando, poi, che il medico
che ignorasse questo legame sarebbe destinato al fallimento.
Ippocrate (460 – 377 a.C.) comprese che la malattia non è causata
da una successione di fenomeni inspiegabili, bensì si manifesta con evidenti
nessi causali.
Egli riteneva che il cervello fosse la sede dell’anima e
considerava il medico un osservatore attento dei segnali della malattia, con il
semplice compito di aiutare la natura nel suo atto di guarigione.
Ildegarda di Bingen (1098 – 1179), grande mistica medievale e
primo medico psicosomatico, pur non avendo una formazione né scolastica né
accademica, durante la sua lunga esistenza svolse una ricca attività di scrittrice,
producendo testi di medicina (Causae et
curae, Physica), di cosmologia e
biologia (Scivias), di storia
naturale (Liber simplicis medicinae e
Liber compositae medicinae).
Fu poetessa, musicista (compose più di settanta sinfonie che
risuonavano nelle chiese di tutta Europa), erborista, pittrice e famosa per i
suoi miracolosi poteri di guarigione.
Nei suoi libri tratta delle relazioni tra l’uomo (microcosmo) e l’
Universo (macrocosmo), delle malattie come rottura dell’armonia cosmica e della
medicina dolce come via naturale per ristabilire la sintonia tra corpo e
spirito.
Per Ildegarda, la salute dipende in gran parte dallo stile di vita
e dall’alimentazione: perciò detta le sei regole d’oro della vita, nelle quali
sono raccomandati:
1. lo stile di vita,
2. l’alimentazione,
3. la regolazione delle fasi sonno-veglia,
4. l’esercizio fisico,
5. il contatto con gli elementi della natura,
6. l’attenzione alle riserve spirituali.
Essa dice: “Se si
comprendono i sintomi fisici nel loro senso più profondo, si possono
riconoscere alla loro radice le cause spirituali e si può individuare il modo
per liberare il corpo da questo peso”.
Lo scopo della psicoterapia, già olistica, di Ildegarda è la
realizzazione di un Uomo, perfetta sintesi tra cielo e terra, totalmente
consapevole della sua forza e delle sue debolezze e ricolmo di quel principio
terapeutico insito in lui stesso.
Pertanto, ribadisce: “la
salute del corpo e la salvezza dell'anima sono strettamente correlate” (salus, dal latino, indica l’una e
l’altra parola).
“Nelle sue visioni cosmiche si riflette la luce di una sapienza
millenaria dove l’uomo, la natura e l’intero universo ritrovano la loro
originaria armonia”.
Anche in Oriente la salute è ottenuta dall’equilibrio tra lo Shen,
spirito, che ha la propria sede nel cuore, il Jing, radice energetica ancestrale, e il Qi, energia che circola nell’organismo.
Le varie forme di energia sono responsabili del buon funzionamento
degli organi: la malattia deriva dal disordine nella produzione e nella
circolazione di questa energia.
Ancora una volta l’uomo è percepito nella sua globalità e nella
sua essenziale e intima unità; esso vive nella connessione inscindibile di
tutte le sue componenti, non concependo di essere separato in sezioni e
compartimenti distinti l’uno dall’altro.
La salute è equilibrio e armonia fra tutte le sue componenti e,
nello stesso tempo, equilibrio e armonia tra l’uomo e l’ambiente che lo
circonda.
La malattia è la scissione di tale equilibrio interno e contemporaneamente
la perdita del rapporto armonico con l’ambiente esterno.
Il sintomo che interessa uno specifico tessuto, un singolo organo
o viscere o apparato, non implica che la malattia sia circoscritta e limitata a
quello specifico tessuto, organo o apparato, bensì l’intero organismo è
coinvolto dallo squilibrio in atto che si manifesta, al momento, a mo’ di
segnale di allarme in quella specifica parte del corpo.
Un famosissimo detto cinese recita: “occorre curare il malato e
non la malattia”… non esiste la cefalea o l’acne, bensì un determinato
individuo, con le sue peculiari, uniche ed esclusive caratteristiche che soffre
di quei determinati sintomi.
Fino a questo momento, pertanto, il concetto di olismo, non è qualcosa
di aleatorio o magico o sconosciuto, ma assolutamente implicito nella
conoscenza e nell’esperienza di qualsiasi individuo, abituato per cultura e
tradizione a ricercare in se stesso l’origine delle proprie sventure o del
proprio benessere.
Ma, in Occidente, nel XVI sec., avviene uno stravolgimento nel
campo della scienza: l’Olismo, con la sua visione globale e unitaria
dell’organismo, viene liquidato, per far posto a una pressante e invadente
visione meccanicistica e materiale dell’individuo.
Questo drammatico passaggio lo si deve principalmente a Cartesio
(1596 – 1650), che, con l’enunciazione del principio Cogito ergo sum, stabilisce il fondamento primo della sua
filosofia: non più l’ ”Essere”, ma la “conoscenza”, il “pensiero”.
Egli identifica la realtà in due parti ben distinte: da un lato la
res cogitans, cioè l’io consapevole, libero, spirituale; dall’altro la
res extensa, cioè il mondo delle cose materiali, spaziale, inconsapevole e,
soprattutto, meccanicamente determinato.
L’enunciazione di questi principi filosofici, contribuisce a
determinare quella drastica separazione fra emozione e intelletto sulla quale
si fonderà la ricerca scientifica nei secoli seguenti, che indirizzerà il suo
sviluppo seguendo il concetto meccanicistico ispirato da Cartesio ed imprimendo
quell’impronta frammentaria e parcellizzante che disintegrerà la visione
globale, unitaria e olistica dell’individuo.
Ma poiché l’uomo non può dimenticare né disconoscere la sua vera
natura, continua ad alimentarla e a covarla, in attesa di un tempo più propizio
e favorevole...
...Che non si fa attendere a lungo: infatti, da poco più di un secolo, grazie
alla Sincronicità di Consapevolezza che si sta realizzando nei vari campi
specialistici delle Scienze Umane, sta ritornando, più potente che mai,
l’esigenza da parte del Sistema Cosmico di essere riconosciuto come la Forza
sottile che tiene unito il Tutto.
L’Astrofisica
e la Fisica delle alte energie, (l’unicità del campo quantico dove tutto è in
sintonia), la Psicologia e la Filosofia (l’inconscio collettivo come strumento
di comprensione del comportamento umano), la Biologia e l’Etologia (il campo
morfico come sistema di comunicazione tra tutto ciò che vive) hanno intrapreso, a cavallo dell’inizio
del secolo scorso, questa direzione comune.
Già nei primi decenni del Novecento si comincia a fare strada una
nuova scienza che, dapprima timidamente, poi sempre più apertamente, emerge con
nuove teorie, ma in fondo non troppo nuove, come già precedentemente
evidenziato, e nuove ricerche nel campo delle relazioni tra mente e corpo: la
PsicoNeuroEndocrinoImmunologia, che così sentenzia:
“Possiamo
definire il corpo come la componente visibile e tangibile di un insieme molto
più vasto e complesso che è la totalità del nostro essere, con tutti i suoi
diversi livelli – fisico, emotivo, mentale e spirituale – strettamente
collegati e interagenti tra loro”.
Una nuova, a lungo attesa, Era comincia a riapparire, riproponendo
gli antichi e universali concetti che vedono l’uomo ricomposto nella sua
interezza.
Lunga, anche se appassionante, sarebbe l’elencazione degli uomini
e delle scoperte che hanno portato all’enunciazione di quei principi che
nell’antichità erano considerati patrimonio della natura umana e non avevano
bisogno di dimostrazioni.
Eccone alcuni esempi.
Candace Pert, famosa neurobiologa, ricercatrice nel dipartimento
di Biofisica e Fisiologia della facoltà di medicina della Georgetown University
a Washington, a cui si deve la scoperta dei recettori per gli oppiacei, ed
autrice del famosissimo libro Molecole di
emozioni, da anni si sforza di spiegare l’unità esistente fra materia e
spirito, fra corpo e anima.
I suoi studi hanno portato all’individuazione di una biochimica
delle emozioni e quindi alla esposizione di una teoria sottile sul modo in cui
le emozioni contribuiscono alla creazione della salute o della malattia.
La scienziata afferma che alcune sostanze chimiche (i
neuropeptidi) sono il substrato fisiologico delle emozioni, la base molecolare
di ciò che sperimentiamo sotto forma di sentimenti, sensazioni, pensieri,
impulsi e forse persino di spirito e anima e che essi e i loro recettori si
trovano, non soltanto nell’ipotalamo, come un tempo si era portati a credere,
bensì negli apparati più distanti e nei punti più periferici del corpo umano. Ciò
ha indotto la scienziata a concludere che esiste una stretta relazione di
comunicazione tra il cervello e il resto del corpo.
L’interconnessione esistente tra cervello e tutti i sistemi
dell’organismo conduce la scienziata a un’ardita ma inevitabile affermazione,
che va peraltro a confermare quanto già sostenuto dalle psicologie orientali: “
…si può concludere che la mente è nel corpo, nello stesso senso in cui la mente
è nel cervello, con tutto ciò che questo comporta”.
Paolo Pancheri, Direttore della Clinica di Medicina Psicosomatica,
e Massimo Biondi, altro esponente di punta della disciplina, sottolineano il
carattere rivoluzionario di questo aspetto della ricerca biomedica: “Si sono identificati i collegamenti tra
cervello, sistema endocrino e sistema immunitario. Questo vuol dire che le
relazioni tra mente e corpo hanno abbandonato il terreno della congettura, del
puro psicologismo; infatti sono stati identificati, non solo i canali di
collegamento tra psiche e soma, ma anche le molecole che fungono da mediatrici
di questo rapporto”.
D. Goleman, studioso di fama internazionale, si occupa degli
effetti che le emozioni possono avere sull’organismo. In seguito a sue
peculiari ricerche, egli afferma che emozioni quali la rabbia e l’aggressività
svolgono un ruolo determinante in molti decessi prematuri; così come la
depressione può svolgere un’azione di rallentamento in un processo di
guarigione. Al contrario, emozioni quali la calma, l’ottimismo, la serenità e
la disponibilità, svolgono un effetto positivo sull’intero sistema immunitario,
e potenziano la capacità di guarigione dell’organismo umano.
G.M. Edelman, premio Nobel 1972 per la fisiologia e la medicina,
per le sue ricerche sulla struttura degli anticorpi, nei suoi scritti ha posto particolare
attenzione nei riguardi del problema della coscienza e del pensiero e ha
cercato di definire quali siano i processi neurali che spiegano le
proprietà della coscienza.
In particolare nel suo libro Più
grande del cielo. Lo straordinario dono fenomenico della coscienza,
l’autore affronta importanti concetti filosofici riguardo gli eterni
interrogativi del nostro senso della vita.
J. Edwin Blalock, docente di fisiologia all’Università
dell’Alabama, afferma che i neuropeptidi
(sostanze chimiche prodotte non soltanto dai neuroni, ma anche dalle cellule
endocrine e dalle cellule immunitarie) possono essere considerate le parole e
le frasi della comunicazione tra il cervello ed il resto del corpo.
James Le Doux, considerato uno dei più eminenti studiosi di
neurobiologia, nei suoi scritti, guida il lettore alla scoperta del sé, alla
luce dei risultati di oltre vent’anni di ricerca.
Antonio Damasio, neurobiologo portoghese, meditante dichiarato, ha
contribuito a questo sviluppo con i suoi studi e le sue ricerche sulla
neurologia della visione, della memoria e del linguaggio.
Altri e numerosi sono i ricercatori che, all’interno di discipline
biomediche tradizionalmente separate, tendono a dimostrare come il cervello,
pur essendo la sede delle funzioni intellettive umane, è, al tempo stesso, una
ghiandola endocrina che, in perpetua e stretta collaborazione con altri
apparati, costituisce un sistema strutturato a più vie, teso a mettere in atto
le reazioni vitali di adattamento dell’organismo ai cambiamenti che provengono
dall’esterno.
Alla luce di queste nuove conoscenze, si può ormai chiaramente
sostenere che i grandi sistemi del nostro organismo (psicologico, nervoso,
endocrino, immunitario) sono in stretto rapporto tra loro e che questa
connessione agisce in modo tale da influenzare il microambiente su cui vengono
ad instaurarsi i disordini del nostro organismo.
Si sta verificando, già da ora, ciò che alcuni autori predicevano
pochi decenni fa, e cioè che la Medicina difficilmente potrà fare a meno dei
concetti della psiconeuroendocrinoimmunologia e delle dimostrazioni, sempre più
consistenti, dei legami che esistono tra cervello e organismo, tra mente e
corpo, tra stress e modificazioni somatiche.
Questa realtà sfida, ancora una volta, una concezione della
medicina settoriale, divisa in branche rigide, erede di concetti importanti ma
ormai d’altri tempi, e apre orizzonti del tutto nuovi alla conoscenza
dell’uomo.
La considerazione che mi viene spontanea – nel voler fare un
confronto con la medicina tradizionale che ogni giorno ci spinge, se non
addirittura ci obbliga (vedi le vaccinazioni), a considerare l’ambiente intorno
a noi come un ricettacolo di pericoli e ci vorrebbe costringere ad uno stato di
continuo allarme – è come l’affrontare la malattia, e in generale la vita, con
una visione più ampia e allo stesso tempo unitaria, ci permette di conoscere e
coltivare l’armonia, essenziale per la salute della nostra mente e della nostra
anima.
Attraverso uno sguardo olistico possiamo imparare a decifrare il
linguaggio del nostro essere elettromagnetico e a riconoscere gli effetti dell’energia
emotiva, passata e presente, sulla salute fisica.
E’ vero, sì, che la visione olistica ci permette di contemplare
l’unicità e l’interezza di tutto, ma al tempo stesso ci offre la possibilità di
considerare le singole parti che questo Tutto concorrono a formare.
Si può fare un’analogia con il puzzle: ogni singolo pezzo è reale
e finito e completo in se stesso, in quanto pezzetto di cartone, colorato, con
la sua specifica consistenza, il suo peso e la sua simpatica forma; l’insieme
di tutti i pezzi compone un disegno più grande, che a sua volta contiene tutti
i singoli tasselli e non potrebbe essere quello che è se ne mancasse anche
soltanto uno.
Facendo l’esempio su di me, pur restando su un piano molto
superficiale e generico, posso dire: sono un essere umano, femmina dal punto di
vista biologico, individuo donna da quello sociale, cittadina di un determinato
stato politico,
lavoratrice autonoma dal punto di vista del lavoro, studentessa rispetto
al mondo della formazione, figlia
all’interno di una famiglia, compagna nel contesto di coppia, ecc….
Ognuno di questi aspetti ha un senso se preso singolarmente.
Eppure, ciò non esaurisce la descrizione di ciò che io sono come persona. Di me
fanno parte i ricordi del passato, le idee del presente, i progetti per il
futuro, i miei gusti culinari e musicali, il mio modo di camminare, gli ultimi
pensieri prima di addormentarmi e molte altre caratteristiche.
3.2 Tutto è Uno
I maggiori problemi del nostro tempo
sono sistemici;
isolati non possono essere compresi.
Per comprenderli è necessario un
approccio olistico, o sistemico.
Fritjov Capra
Essendo la visione olistica omnicomprensiva, gli elementi che
bisogna prendere in considerazione per applicarla sono gli estremi – cioè l’infinitamente
piccolo e l’infinitamente grande, dimensioni che non sempre, anzi direi quasi
mai, ci permettiamo di identificare e di riconoscere – e gli opposti, per
trovare in essi caratteristiche ed attributi che li rendano simili e
complementari.
In quei rari momenti in cui ci soffermiamo ad osservare la
struttura dell’Universo, percepiamo essenzialmente la sua materialità, nei suoi
aspetti e nelle sue dimensioni più manifeste e tangibili; i nostri sensi, che
nei secoli si sono via via sempre più intorpiditi ed anestetizzati, perdendo le
loro intrinseche e reali capacità di vedere e sentire, percepiscono ed
afferrano solo un aspetto superficiale e palpabile del mondo che ci circonda.
In realtà gli oggetti che ci appaiono in forme e strutture ben
delimitate, sono composti da particelle atomiche e sub-atomiche ai nostri occhi
invisibili, ma vive e determinanti.
L’atomo, già di per sé invisibile, perciò infinitamente piccolo, è
composto da un nucleo intorno al quale orbitano gli elettroni; noi non lo vediamo,
ma lo possiamo ben immaginare, rapportandolo ad un sistema ben più visibile ed
infinitamente grande, che è il nostro sistema solare, costituito dal sole e dai
pianeti che gli girano intorno… e possiamo andare ancora oltre l’infinitamente
piccolo e oltre l’infinitamente grande… perché la realtà che ci circonda e che
noi tendiamo sempre più a definire e a circoscrivere, è molto più complessa e
sottile di quanto riusciamo ad immaginare.
Gli scienziati, ognuno orientato e concentrato nel proprio
specifico settore, sono stati sempre inclini a catalogare e raggruppare le
proprie scoperte, dando loro una connotazione definita e separata dalle
ricerche e dalle scoperte emergenti in altri campi.
Fino a che alcuni illuminati studiosi hanno riportato alla luce
concetti e nozioni conosciuti fin dai primordi della vita, ma per troppo tempo
dimenticati o volutamente ignorati: biologi, fisiologi, sociologi, ingegneri,
fisici, sanno ormai bene che alla base dei fenomeni più diversi ed
apparentemente opposti risiedono proprietà e principi comuni.
Perciò oggi, alle soglie del terzo millennio, la scienza ha dovuto
ri-conoscere le comprovate corrispondenze tra l’energia e la materia, due
elementi estremi ed opposti che per secoli sono stati considerati completamente
indipendenti e separati l’uno dall’altro.
“Energia” è un termine troppo vago per parlarne dando per
scontato che tutti gli attribuiscano lo stesso significato: ognuno gli fa
corrispondere un significato particolare, non c’è ancora una definizione
universalmente condivisa.
Inoltre, ci sono molti e differenti tipi di energia: c’è l’energia
elettrica, l’energia meccanica, l’energia generata dai nostri processi
bio-chimici che ci permette, ad esempio, di fare una bella corsa sulla spiaggia;
c’è l’energia che mettiamo nelle nostre parole quando vogliamo evidenziare una
sfumatura del nostro discorso; c’è l’energia che ci manca alla fine di una
giornata stressante; c’è l’energia che riceviamo da un buon succo di frutta,
c’è l’energia eterica di cui sentiamo parlare da vari “maestri” spirituali….
Non tutti conoscono le diverse accezioni della parola: ci sono
persone che dell’energia cosmica non hanno mai sentito parlare, e forse neanche
mai ne sentiranno; mentre ce ne sono altre nella cui vita l’energia cosmica ha
una rilevanza talmente grande, che possono fare benissimo a meno di quella
elettrica.
Si fa presto a dire: “Se vuoi migliorare il tuo stato di salute,
faresti bene ad innalzare la frequenza vibratoria della tua energia” !
Dicendo ciò, tra operatori nel campo delle discipline olistiche
spesso ci si intende; ma, in qualità di counselor, interagendo con i nostri
interlocutori, non dobbiamo dare niente per scontato, quindi meglio evitare
parole troppo vaghe.
Dell’energia non è sempre necessario parlare, meglio lasciarla
scorrere…
Anche se non è facile descriverla a parole, ho un’idea ben chiara di che cosa sia per me: essa è il denominatore comune che tutto sottende.
Quel liquido non liquido che tiene insieme tutti gli elementi che concorrono a
fare di noi le persone che siamo in questo momento: da quelli fisiologici a
quelli spirituali, passando per quelli psicologici, emozionali, caratteriali,
razionali, ereditati, trasformati, integrati, proiettati, culturali e non.
L’energia è l’intenzione in sé, intenzione di esistere, di essere
qui e ora, con tante cose da fare. E’ l’essenza pura, l’idea più leggera, lo
spazio talmente rarefatto che sfiora il vuoto, l’energia è anche il vuoto.
Essa è dappertutto, dentro e fuori e intorno, dagli atomi di una
molecola di sabbia viaggia per l’uni-verso multi-verso, solcando le galassie.
L’energia sta alla materia come la vibrazione sta al suono: esiste
sempre e può assumere infinite sembianze, a prescindere che noi la percepiamo
oppure no.
Ecco! Forse la caratteristica che meglio la definisce è la sua
dimensione infinita, estrema in ogni direzione.
E’ l’assenza di tutto, senza la quale niente potrebbe esistere.
La materia, in tutte le sue forme, è un concentrato di forze: essa
si presenta ai nostri occhi, solida solo perché tenuta assieme dalle potenti
forze esercitate dalle sue componenti subatomiche; ed è a queste a cui fanno
riferimento oggi le teorie più avanzate della fisica quantistica, che ci dice
che materia ed energia sono due diverse forme in cui la realtà si manifesta ai
nostri sensi, o, in altre parole, due modi in cui noi possiamo percepirla.
Le nuove teorie non si interessano più delle molecole, ma dei
campi di forza esercitati da dette particelle.
Secondo questa concezione, gli oggetti materiali solidi, a livello
sub-atomico, non sono costituiti che da sequenze ondulatorie e la stessa fisica
quantistica afferma che la luce è sia energia sia materia: l’aspetto in cui
essa si rivela dipende sostanzialmente dal punto di vista di chi la osserva;
essa ha così confermato l’essenza vibrazionale alla base della vita: l’energia
vitale, quindi, non è statica, ma cinetica, si muove, viaggia, attraversa
spazio e tempo e crea situazioni, incontri ed occasioni.
Teoria a cui ormai tutto il mondo scientifico ha dato largo
credito, suffragata dalla più rivoluzionaria, ed ormai ampiamente riconosciuta,
Teoria della Relatività formulata da Einstein (1915): E=MC2.
Vale a dire: l’Energia equivale alla massa moltiplicata per la
costante di velocità al quadrato.
Questa equazione ci dice che la velocità della luce è una costante
e che Energia e Massa sono due parametri variabili, interdipendenti, che si
trasformano l’uno nell’altro: la massa non è che energia concentrata.
D’altronde, nel mondo orientale l’unitarietà tra energia e materia
è da sempre un dato acquisito, che non necessita di dimostrazioni.
Questa straordinaria e millenaria civiltà ha, infatti, edificato
le fondamenta di tutto il suo pensiero scientifico, rimasto immutato e saldo
nei secoli, sull’assunto “il mondo è composto da forze mutevoli”.
E tale concetto è stato intuito e realizzato, già più di tremila
anni prima che Einstein formulasse la sua teoria, in quella branca del sapere
rappresentata dalla Medicina Cinese
(MTC), che si propone come una medicina essenzialmente energetica, le cui
origini si fanno risalire all’età della pietra e addirittura alla comparsa
dell’uomo sulla terra.
Nel Nei Jing (antico testo di Medicina Tradizionale Cinese) è
scritto: “ Il TAO produsse l’uno (QI), l’uno produsse il Due (yin e yang), il
due produsse il Tre (uomo, cielo, terra) ed il tre produsse i diecimila
esseri".
Ma tutti gli esseri non sono che l’evoluzione dinamica del Tao:
cosicché tutti esistono nel Tao e il Tao esiste in tutti, in altre parole:
Tutto è Uno.
L'universo, realtà indivisibile, in eterno movimento, materiale e
spirituale al tempo stesso, è l'espressione di un principio fondamentale o TAO,
origine, motore e fine di tutto ciò che esiste, pur restando impercettibile e
indefinibile.
Tutto il mondo fenomenico e ogni essere vivente è una emanazione
del Tao che si esprime attraverso l'azione di una forza di trasformazione e
mutamento, chiamata QI o soffio vitale, ("energia" in occidente) che
scorre incessantemente ovunque, e si
manifesta attraverso l'attività dinamica di due forze o polarità ancestrali, lo
Yin (che esprime l'aspetto femminile, ricettivo, interno, freddo, oscuro di
ogni fenomeno) e lo Yang, (in cui risiede l'aspetto maschile, creativo,
esterno, caldo e luminoso), principi opposti, ma tra loro complementari, che
interagiscono e si alternano all'infinito in un processo dinamico realizzando
un perfetto equilibrio: dalle loro relazioni bilanciate dipende l'armonia
dell’Universo e quindi dell’uomo che di esso fa parte.
Elemento dell'Universo situato tra cielo e terra, l’uomo è il
frutto della combinazione delle due energie in perenne movimento e
trasformazione ed è sottomesso alla legge dello Yin/Yang.
Alla nascita, esso viene provvisto di una determinata quantità di
energia vitale primordiale ( jing ), ereditata dai genitori, quindi non
rinnovabile, ma soggetta ad esaurimento nel corso della vita, a cui si
aggiungono le energie assimilate dal cosmo e quelle assorbite dalla terra,
reintegrabili attraverso la respirazione e l'alimentazione. L'insieme di queste
differenti forze vitali costituisce il QI o energia essenziale dell'individuo,
la cui circolazione equilibrata e armonica, assicura lo stato di buona salute.
Finché l’uomo si trova in equilibrio con l’ambiente (macrocosmo) e
con se stesso (microcosmo), l’energia circola armoniosamente e l’individuo
mantiene lo stato di salute. Se per qualche motivo, sia di natura esterna che
interna, il flusso dell’energia subisce degli squilibri (difetti nella
produzione, nella circolazione o nel consumo), ha inizio il processo di
malattia che in un primo momento si manifesterà con disturbi funzionali quindi,
se non si interviene con adeguate misure terapeutiche, con manifestazioni
organiche.
Possiamo pertanto dire che il pensiero cinese, al contrario dell’approccio
occidentale, analitico, che separa, scompone e analizza nelle sue singole
parti, formula le sue leggi utilizzando un procedimento analogico, induttivo, cioè
collega, mediante l'osservazione dei fenomeni naturali, fatti ed eventi e ne
coglie le corrispondenze e le analogie; ed è su questi presupposti che si
reggono alcune leggi fondamentali, alla base della sua filosofia e della sua
concezione della vita. una delle quali è la legge dello yin e dello yang.
Tutto, nell'universo, può essere catalogato rispetto ai principi
yin o yang, intesi come i due lati della stessa medaglia; ogni aspetto della
vita consta dello scorrere dello yang verso lo yin e viceversa.
Perciò avremo il giorno e la notte, il caldo e il freddo,
l’interno e l’esterno, la mattina e la sera, il buio e la luce, il basso e
l’alto, il pieno e il vuoto, il bianco e
il nero, il superficiale e il profondo, l’estate e l’inverno, il piccolo e il
grande, il maschile e il femminile, e così via all’infinito potremo
continuare ad elencare un elemento ed il
suo contrario, dimostrando come siano inscindibili ed essenziali l’uno
all’altro e come non sia possibile la loro esistenza disgiunta.
Nell'ideogramma del QI, substrato energetico della realtà, sono
espressi in sintesi i concetti su esposti che ben si collegano e si
identificano con la più recente, e forse più famosa, equazione matematica di
Einstein.
Nella parte bassa è rappresentato un chicco di riso che cuoce:
esso è l'alimento per eccellenza, che rappresenta la materia concreta,
l'energia allo stato potenziale (yin).
Le linee orizzontali nella parte superiore rappresentano il
movimento dell'emissione del vapore, che si sprigiona dal riso, la parte
mobile, più sottile, più yang dell'energia.
Lo stesso concetto è ancora una volta espresso nel diagramma del
Tai Ji.
La tendenza a concentrare materia è l'aspetto yin della realtà,
mentre la tendenza a muoverla e disperderla è l'aspetto yang della realtà: il
Qi è, dunque, energia, ma anche struttura materiale.
Questo emblema simbolizza, forse più di ogni altro, la presenza
dei due aspetti, contemporanei ed inscindibili, della realtà, presenti in tutte
le cose e in tutti gli esseri dell’Universo.
Non può esserci assolutamente solo materia (yin) o solo spirito
(yang): quando una delle due polarità raggiunge il proprio massimo, deve
trasformarsi in quella opposta, in una perenne ed equilibrata continuità: nel
simbolo dell’uno è contenuta la presenza del segno opposto dell’altro, quasi
fosse un seme che si appresta a germogliare.
A loro volta, le due polarità sono contenute nel tutto, il TAO, da
cui sono emanate e al quale sempre ritornano.
Del termine ‘energia’ si è parlato molto, soprattutto con
l’avvento della New Age, che, a mio parere, pur presentando non pochi aspetti
positivi, ha contribuito a creare una certa confusione a riguardo, accentuando forse troppo spesso la visione mistica dell’uomo,
trascurandone quella più prettamente fisica, o, meglio, corporea.
Ma la nostra cultura non ha ancora bene integrato i due concetti,
che vengono intesi come due cose distinte o indipendenti l’una dall’altra.
In effetti, non è semplice avere una visione unitaria e integrata
della realtà, ma questo aspetto gioca a favore di chi, come noi, ama indagare
le radici della nostra esistenza, di quanti ancora non si accontentano, di
quanti dalla bambagia ovattante di questa matrice interpretativa si stanno
costruendo un varco, di quanti sanno che l’umano essere è sempre in continuo,
anche caotico, movimento.
Siamo, qui e ora, con un corpo che ci permette di osservare ciò
che ci circonda da differenti punti di vista.
Il concetto del “Tutto è Uno” lo ritroviamo ancora nella Teoria
olografica, elaborata per la prima volta nel 1947 da D. Gabor, a cui fu
assegnato il Premio Nobel per la sua attività scientifica. Sulla scia di queste
prime intuizioni, molte strade si sono aperte e nuovi tipi di ricerche in quasi
tutte le discipline scientifiche hanno favorito la nascita di nuovi modelli
esplicativi e di nuove scoperte.
L’applicazione della teoria olografica alla spiegazione della
percezione della realtà spetta a due eminenti scienziati, il fisico David Bohm
e il neurofisiologo Karl Pribram, che nel secolo scorso, indipendentemente
l’uno dall’altro e partendo da presupposti completamente diversi – l’uno dalle
particelle subatomiche, l’altro dal cervello umano – hanno intuito e quindi
formulato.
Secondo tale teoria, nella più piccola particella esistente è
rappresentata, in nuce, tutta l’esistenza dell’Universo, cioè l’intero è
rappresentato in ogni più piccola sua parte.
In ogni cellula del nostro corpo è contenuto il nucleo con il suo
DNA, in cui sono trascritte tutte le informazioni relative alla struttura,
micro e macroscopica, dell’intero organismo: ogni cellula è così connessa
intimamente alle altre cellule e alla globalità del nostro essere, nello stesso
modo in cui un microcosmo è racchiuso in un macrocosmo.
Nella stessa relazione l’uomo (microcosmo) è unito come ogni altro
essere vivente all’intero Universo (macrocosmo).
Concetto sicuramente difficile da comprendere per la maggior parte
della gente e fatta oggetto di controversie da parte di numerosi studiosi, ma
abbracciata da altri eminenti e accreditati scienziati, che in tal modo sono
riusciti finalmente a spiegare un’enorme quantità di fenomeni, considerati fino
ad allora oscuri ed incomprensibili, quali la telepatia, la precognizione, la
psicocinesi (capacità della mente di muovere oggetti senza toccarli), la
sincronicità, i sogni lucidi, le esperienze di pre-morte.
Non solo, essa riesce anche a spiegare come il nostro cervello
possa contenere un così gran numero di ricordi in uno spazio tanto ristretto.
“I nuovi dati sono di così
lungimirante attualità che potrebbero rivoluzionare la nostra comprensione della
psiche umana, della psicopatologia e del processo terapeutico. Alcune delle
osservazioni trascendono nel proprio significato lo schema della psicologia e
della psichiatria e rappresentano una vera sfida per l’attuale paradigma
newton-cartesiano della scienza occidentale.
Esse potrebbero mutare drasticamente
la nostra immagine della natura umana, della cultura, della storia e della
realtà”.
Dr. Stanislav Grof
“The
adventure of self-discovery”
Lo stesso Stanislav Grof, autorevole psichiatria e singolare
esploratore degli stati alterati di coscienza, afferma in un suo scritto che i
modelli neurofisiologici del cervello, così come universalmente ed
accademicamente conosciuti, sono inadeguati a spiegare alcune esperienze che
possono invece essere interpretate attraverso l’applicazione dell’ emergente
modello olografico.
L’importanza dell’acquisizione di questa teoria sta nel
riconoscere l’unitarietà dell’universo. Infatti, la tendenza quasi del tutto
generale a frammentare il mondo, ignorando l’interconnessione dinamica
esistente fra tutti gli elementi, è responsabile della maggior parte dei
problemi dell’umanità, in tutti i campi della nostra vita, singola e
collettiva, e potrebbe portarci perfino alla completa estinzione.
Dalle Stelle dell’Universo, alla Società, all’Individuo, possiamo
applicare questo concetto al microcosmo, rappresentato dall’uomo con il suo
organismo: è impossibile trattarlo senza considerarlo nel suo insieme; poiché
il mantenimento dell’equilibrio fra tutti gli elementi che lo compongono e lo
contengono è necessario per il suo stato di completo benessere.
In caso contrario si verificherebbe squilibrio, disarmonia, quindi
malattia.
Lo stesso concetto ce lo ribadisce la Natura che, nella sua
estrema saggezza, ci fornisce un esempio evidente attraverso quegli
straordinari fenomeni a cui Benoit Mandelbrot nel 1975 diede il nome di
frattali.
Complessi da definire, più immediati invece da capire semplicemente
osservandoli: vediamo allora come un oggetto, in qualunque dimensione scalare
lo si osservi, presenti ininterrottamente gli stessi caratteri globali
Così un ramo è proporzionalmente simile all’intero albero e ogni
rametto è a sua volta simile al proprio ramo, e così via.
Ancora una volta il tutto è rappresentato dalla più piccola unità,
essa stessa facente parte dell’intero.
Il tutto tenuto insieme da una più vasta idea di equilibrio e
perfezione, in assenza del quale non esisterebbe che caos e scompenso.
Equilibrio o scompenso che siamo noi stessi, con le nostre scelte
e con le nostre prese di coscienza a determinare, sia dentro che intorno a noi.
Siamo liberi quindi di scegliere e meglio sarebbe se tale scelta
fosse suggerita da un atto di intelligenza: impariamo pertanto ad inter-legere, ossia a leggere tra le
righe i messaggi che il nostro corpo, l’organismo Società Collettiva e, più in
generale, il nostro Pianeta ospitante ci trasmettono.
La possibilità di questa scelta è particolarmente importante in
questo momento così critico per l’umanità, in cui si avvertono grandi
manifestazioni di turbolenza e aggressività da parte del pianeta, che si esprime
attraverso eventi catastrofici quali terremoti, inondazioni, tracimazioni,
valanghe, pestilenze: non sono altro che il tentativo di ristabilire un nuovo
equilibrio e, al tempo stesso, sono il segno tangibile dell’interdipendenza e
dell’interconnessione dei fenomeni; altrettanto inquietanti sono i messaggi che
ci giungono dall’organismo Società Collettiva: guerre, sfruttamento delle
risorse umane, naturali e animali, prevaricazioni sociali, ingiustizie, avidità, continue lotte di
potere; così anche il nostro organismo risente di tanta sofferenza, da cui il
dilagare di malattie sempre più incurabili e di estremi e oscuri disagi
mentali.
Una terribile ed egoistica forma di ipocrisia ci impedisce di
vedere e riconoscere le relazioni esistenti tra questi fatti e l’azione
dell’uomo; ci impedisce di riconoscerli come l’esito della rottura di un
equilibrio cosicché non percepiamo la necessità di ricerca di una nuova
stabilità.
Se continueremo a ignorare questi richiami, se perdureremo
nell’interminabile guerra con noi stessi e con il mondo intero, se proseguiremo
a travalicare i limiti e le leggi della forza che ci ha generato, se
continueremo ad allontanarci e a rifuggire dall’unità, la malattia ci
prevaricherà, la natura si ribellerà fino al compimento dell’annientamento
totale.
Ma come può realizzare la sua distruzione l’uomo, con un atto di
scelta intelligente e consapevole, può anche partecipare al suo rinnovamento e
alla sua ricostruzione, ritrovando il suo centro e riconoscendo la sua armonica
unità; prevarranno allora i movimenti per la pace, il sentimento di giustizia e
uguaglianza, di libertà consapevole, di comprensione, di fiducia: l’Uno si
potrà riunire così al Tutto e il Tutto ritroverà nell’Uno la sua perfezione e
la sua realizzazione.
Da questa ritrovata consapevolezza dipenderà la sopravvivenza del
pianeta e la rinascita di un
comportamento capace di creare uno sviluppo compatibile con la sopravvivenza
della terra.
In ultima analisi, l’intero universo
[….] deve essere compreso come una singola totalità indivisa, in cui l’analisi
in parti esistenti in modo separato e indipendente non ha una fondamentale
ragion d’essere.
L’universalità e l’attendibilità di questi concetti risiede nella
constatazione che ogni teoria, benché formulata in epoche e da individui diversi,
è giunta infine a enunciare lo stesso concetto fondamentale, l’Unitarietà
dell’Universo.
Qualunque sia l’idea che più condividiamo, la verità è soltanto
una: l’uomo, nella sua complessità di mente, corpo e anima, non può essere
frammentato e suddiviso in sistemi, organi o cellule. La salute dell’intero suo
organismo dipende dall’equilibrio di tutte le sue componenti, egualmente
fondamentali, così come dal suo benessere dipende anche la salute del pianeta
Terra, perché l’uomo è l’anima della terra e la terra è l’anima dell’uomo;
nell’uno si rispecchia l’altra e viceversa e le azioni dell’uno incidono
inevitabilmente sull’altra perché, essendo l’uno una particella
olografica dell’altra, non possono ignorarsi a vicenda: se l’uomo è in
equilibrio, godrà di buona salute, rispetterà se stesso e, di pari passo,
rispetterà la terra che lo accoglie e lo nutre; il pianeta, rispettato ed
amato, continuerà ad alimentare amorevolmente il suo ospite.
Se consideriamo per un attimo la parola “universo” e la
scomponiamo, troviamo che essa è formata da “uno” e “verso”, cioè poesia,
canzone. Ecco che cos’è l’universo: una sola canzone, di cui ognuno di noi
rappresenta una nota. Siamo perciò individui unici, apparteniamo alla medesima
totalità e le nostre azioni sono tutte indissolubilmente concatenate e
collegate.
Questa visione è chiaramente condivisa e ampiamente esposta nel
saggio di Ken Kesey La centesima scimmia;
Quantum reality di Nick Herbert, Il Tao della fisica di Fritjof Capra, La danza maestri Wu Li di Gary Zukav, The lives of a cell di Lewis Thomas, A new Science of life di Rupert
Sheldrake, non sono che un esiguo esempio della foltissima bibliografia che
esiste sul tema della coscienza collettiva, sulle cui regole, non ancora scritte, l’intera storia
dell’universo sembra uniformarsi.
L’invito improrogabile da rivolgere ad ognuno di noi è considerare
il nostro corpo non come un semplice aggregato di apparati, ognuno espletante
la propria funzione, ma come un organismo dinamico, in movimento, in continua
evoluzione e mutamento.
Impariamo a suonare lo strumento del nostro essere, in modo da
produrre una sinfonia armonica e spettacolare.
4. SOLUZIONI OLISTICHE OGGI
In Oriente, in Africa e nelle culture
tradizionali americane e australiane, non incanalate dal dualismo cartesiano,
non è nata una concezione dell’individuo come entità chiusa all’interno dei
limiti del corpo. Queste tradizioni sono pervenute a procedure curative legate
all’idea che i disturbi dello spirito siano disturbi delle relazioni con il
mondo visibile, ovvero la dimensione relazionale e sociale, e invisibile,
ovvero la dimensione spirituale.
Nell’ambito delle terapie psicologiche si parla di rado e
malvolentieri della spiritualità, forse perché è difficile da definire, ma
anche perché troppo spesso viene
identificata, dall’opinione pubblica, con la religione, che di per sé può
rappresentare un elemento di divisione e di forti contrasti.
Essendo l’esperienza umana molto più vasta della semplice
psicologia, è proprio attraverso la spiritualità che possiamo approfondire la
ricerca dei significati che permeano la nostra vita e la nostra stessa
esistenza su questo pianeta.
In realtà non esiste un motivo scientifico per tener fuori la
spiritualità dalla medicina. E’ solo il frutto di un’abitudine ormai da troppo
tempo consolidata e che, in qualche modo, la scienza biomedica, avendo compreso
quale ruolo determinante svolgano anima, mente ed emozioni nella salute fisica,
è chiamata sempre più insistentemente a integrare.
Sempre meno persone, oggi, si riconoscono nella terapia
tradizionale, essendo venuta meno la fiducia nelle istituzioni e nella medicina
accademica.
Senza voler necessariamente demonizzare una scienza alla quale
bisogna riconoscere grandi meriti ed enormi progressi, non escludendo le
conoscenze già acquisite, possiamo integrarle e valorizzarle, inserendo nel
nostro bagaglio culturale altri metodi i cui peculiari elementi possono
contribuire a colmare le lacune che la medicina ufficiale lascia inadempienti,
riappropriandoci di un nuovo significato da conferire all’esistenza, con nuove
dimensioni di valore, spessore e profondità.
Numerosissimi e importanti studi condotti in campo psicologico,
medico e psiconeuroendocrinoimmunologico dimostrano la validità e l’efficacia,
nel trattamento dei disturbi psicologici, psicosomatici e clinici, di molte discipline,
che dovremmo smettere di considerare alternative, potendo invece esse
rappresentare un aspetto non convenzionale e complementare a quelle
ufficialmente praticate.
Per lo più, il modo di diagnosticare e di curare le malattie
nell’ambito delle discipline non convenzionali è sostanzialmente diverso da
quello della medicina occidentale. Infatti, per acquisire conoscenza,
competenza e abilità in questi campi, non è necessario un percorso formativo
simile a quello medico, bensì una formazione innanzitutto personale e
spirituale, poi professionale, che si fonda su una diversa rappresentazione del
corpo, della malattia, della salute e della cura.
In questa nuova concezione, il corpo non appare separato dalla
mente e dallo spirito, quindi non viene scomposto in unità singole e
compartimentali, ma ciascuna dimensione, fisica, mentale, spirituale ed
energetica occupano la medesima rilevanza, restituendo quella visione olistica
che siamo tenuti a preservare.
Qui di seguito presento soltanto alcune delle numerosissime discipline
di guarigione naturale oggi disponibili, quelle con cui sono venuta più a
contatto in quanto sperimentate personalmente.
4.1 Metodo Simonton
Per lo più siamo connessi, connessi
alle forze che creano sia la malattia che la salute, alle convinzioni della
nostra società, alle attitudini dei nostri amici, della nostra famiglia e dei
nostri dottori, e alle immagini, alle credenze e perfino alle parole stesse che
usiamo per percepire l’universo.
Rappresenta uno degli esempi più famosi rivolto a dimostrare a chi
è affetto da quella terribile e temibile malattia, quale e’ il cancro, o da
altre gravi malattie, come possa essere
partecipe al recupero della sua salute; tende inoltre a mostrare a chi non
è malato come possa esso stesso essere
partecipe nel conservare la propria salute e il proprio benessere.
Simonton insiste nel sottolineare l’espressione essere partecipe per far comprendere il
ruolo determinante e vitale che ognuno svolge nel creare il proprio livello di
salute. Tutti noi siamo partecipi della nostra salute attraverso le nostre
convinzioni, i nostri sentimenti e i nostri atteggiamenti verso la vita, a
cominciare da quei gesti quotidiani quali l’alimentazione e l’esercizio fisico.
Esso, riconoscendo il rapporto esistente fra mente e corpo,
consapevole del potere di guarigione innato in ciascuno di noi, nonché
dell’importanza del rapporto che si stabilisce tra terapeuta e paziente, nel
suo percorso prende in considerazione l’essere umano nella sua interezza:
fisica, psichica, emotiva e spirituale.
Insegna la vita all’uomo, non tralasciando di farlo avvicinare,
paradossalmente, all’idea della morte, introducendolo a una nuova
interpretazione di quest’ultima.
Cosicché, conoscendo e acquisendo il decalogo che sostiene il percorso di questo specifico metodo, il
paziente diventa consapevole che la guarigione, al di là del suo significato
prettamente fisico, lo supera e lo sublima in un più ampio panorama di
guarigione dell’anima
Il decalogo del metodo Simonton
1. I nostri sentimenti
e le nostre emozioni influenzano
in modo determinante la nostra salute, quindi anche il cancro, e
complessivamente la nostra vita.
2. Le nostre credenze
condizionano i nostri sentimenti, e le nostre emozioni e conseguentemente la
nostra salute ( e la nostra vita)
3. Abbiamo il potere di influenzare le
nostre credenze, il nostro modo di vedere le cose, i nostri sentimenti e
le nostre emozioni; quindi noi possiamo influenzare notevolmente la
nostra salute (e la nostra vita)
4. Possiamo imparare a
trasformare le nostre credenze, il nostro modo di vedere le cose e, conseguentemente,
i nostri sentimenti e le nostre emozioni
5. I nostri sentimenti e le nostre emozioni sono un potente motore
per stimolare il nostro sistema immunitario
e altri sistemi di auto-guarigione del corpo
6. Funzioniamo come un
Tutto, costituito dal corpo, dallo spirito e dall’anima. Questi tre
aspetti devono essere presi in considerazione globalmente nel processo della guarigione, pur rispettando i
bisogni e le caratteristiche del malato, il suo ambiente familiare, sociale e
culturale.
7. L’Armonia, che
deriva dall’equilibrio tra gli aspetti corporeo, psichico e spirituale, è di
fondamentale importanza per la nostra salute. La stessa importanza riveste l’Equilibrio tra l’individuo e le sue
relazioni affettive e sociali, la sua cultura, il mondo e l’universo.
8. Possediamo tendenze e
attitudini congenite (ereditarie ed istintive) che ci aiutano ad acquisire progressivamente salute e
armonia sia sul piano corporeo che mentale, emozionale e spirituale.
9. Queste attitudini istintive possono essere sviluppate e rafforzate in modo
significativo grazie a tecniche e metodologie mirate
10. Dallo sviluppo di tali attitudini consegue il
raggiungimento di una più grande
armonia e di un miglioramento
della qualità della vita che incideranno in modo significativo sulla
nostra esistenza, sulla nostra salute e sulla nostra morte.
Ha inizio così un percorso verso la salute che ha lo scopo di
toccare tutte le parti del sistema per ristabilire l’equilibrio fisico, mentale
ed emotivo, in modo che l’intera persona possa recuperare la salute; esso
consta di una serie di interventi e procedimenti, individualmente e variamente programmabili,
mediante i quali il soggetto decide di:
- essere partecipe della
propria malattia
- gestire il dolore
- accettare la responsabilità della propria salute
- riconoscere i benefici della malattia
- modificare le convinzioni negative
- realizzare immagini
mentali positive
- superare il risentimento
- creare il futuro, ponendosi degli obiettivi
- trovare la propria Guida Interiore
- far fronte al timore della ricaduta e della morte
- mantenere costante l’attività fisica
La famiglia è chiamata a partecipare attivamente attraverso un
programma di sostegno a questo processo di trasformazione e rinnovamento.
Al percorso terapeutico del metodo Simonton appartengono anche
tecniche di rilassamento e pensiero creativo, quali la meditazione e la visualizzazione,
qui di seguito esposte.
4.2 Meditazione e Visualizzazione
Sono fra gli strumenti di guarigione più antichi e più potenti che
abbiamo a
disposizione, già utilizzati presso gli antichi greci.
La Meditazione è una tecnica antichissima che nasce da tradizioni
religiose, spirituali, filosofiche e psicologiche tra loro inseparabili.
Il termine sanscrito per definirla è Samadhi e anche se per qualche occidentale potrebbe contenere una
connotazione esclusivamente religiosa, in realtà non lo è:
essa è innanzitutto l'arte dell'incontro con il nostro vero volto
e, attraverso opportuni esercizi, induce un progressivo stato di rilassamento
mentale, espande la mente, favorendo la quiete, la stabilità e l'armonia
interiore e riduce la paura, la depressione e l'ansia.
La Meditazione, se praticata costantemente, risveglia un livello
molto sottile di coscienza che consente di scoprire la vera natura della
realtà; essa può essere definita come un addestramento focalizzato sulla
presenza mentale, che ha lo scopo di conoscere la natura della mente per
liberarci dalla sofferenza generata dall’illusione della presenza di un Sé
separato.
Nella Visualizzazione,
o uso delle immagini a scopo terapeutico, la mente pensa per rappresentazioni
visive e il pensiero viene utilizzato per stabilire un contatto con la nostra realtà
soggettiva.
L’uso
dell’immaginazione a scopo terapeutico esiste da secoli in molte culture del
mondo, in alcuni casi da millenni: nel Tibet, in India, in Africa, fra gli
eschimesi e gli amerindi. Anche nel mondo occidentale, l’immaginazione ha
costituito una pratica a volte essenziale nel trattamento medico fino alla metà
del 1600, quando le scienze naturali e la moderna medicina hanno preso il
sopravvento. In tempi più recenti, la tecnica ha ritrovato una sua ragion
d’essere soprattutto per merito di alcuni clinici indipendenti, il più
importante dei quali era Carl Gustav Jung.
Le tecniche da
loro elaborate hanno assunto vari nomi: sogno desto guidato (Robert Desoille),
fantasia attiva (Carl Jung), immaginazione affettiva guidata (Hanscard Leuner),
psicosintesi (Roberto Assaggioli). Con loro si sono aperte altre strade verso
l’uso delle immagini mentali nella cura delle malattie organiche.
Tre semplici
passi per verificare l’efficacia e il potenziale creativo di questa tecnica
consistono nell’immaginare ad esempio, che la malattia sia curabile, che il
trattamento o le cure siano efficaci, che il corpo sia capace di
auto-guarigione.
Entrambe, al di là delle loro finalità filosofiche, hanno come
risultato pratico quello di indurre un eccezionale stato di rilassamento
psico-fisico. Significativi sono gli studi che hanno misurato l’efficacia della
meditazione nel ridurre l’ansia indotta da una malattia particolarmente inquietante
come il cancro.
Tom Baker (C.C. di Alberta, Canada), ha condotto uno studio su un
centinaio di pazienti oncologici, basato su un’ora e mezzo di seduta
settimanale di meditazione più esercizi a casa per sette settimane ed ha
dimostrato, mediante apposite scale di valutazione, una netta riduzione di ansia, depressione, rabbia, confusione
mentale; inoltre queste stesse persone hanno presentato una minore labilità
emotiva e minori sintomi cardiopolmonari.
David Spiegel, psichiatra della Stanford University, insegna ai
pazienti tecniche di autoipnosi, di visualizzazione e di rilassamento, che
consentono una riduzione dello stress, la qual cosa permette anche una maggiore
disponibilità a cambiare abitudini, che possono influire sull’andamento della
malattia, come il sonno, l’alimentazione e l’attività fisica.
Studi rigorosi ed affidabili – centinaia di testi letterari
attendibili – confermano l’azione della psiche sull’organismo: quando si
chiudono gli occhi avvengono modificazioni fisiologiche significative a carico di
numerosi organi e sistemi, che si possono ricondurre a una netta riduzione del
metabolismo.
Infatti, dalla seconda metà del secolo scorso, con moderni
strumenti di indagine scientifica, - l’ECG (Elettrocardiogramma)
e l’EEG (Elettroencefalogramma), e più recentemente la RMN (Risonanza
magnetica), che consente la visualizzazione delle aree cerebrali coinvolte
durante gli esercizi meditativi, e analisi del sangue, per testare i livelli
dei più importanti ormoni e neurotrasmettitori –, si sono documentati i
cambiamenti fisici che si realizzano durante l’esecuzione di esercizi di
meditazione e di visualizzazione.
Le conclusioni di queste indagini sono le seguenti:
- a livello cerebrale, si registra uno stato di rilassamento, con
prevalenza di onde
cerebrali di tipo alfa e theta (simili ma non
identiche a quelle del sonno profondo)
- diminuzione significativa del consumo di ossigeno
- diminuzione della frequenza respiratoria e cardiaca
- diminuzione della pressione arteriosa
- regolazione della produzione di cortisolo, principale ormone
dello stress
- aumento notturno della melatonina, fondamentale ormone del
sonno, con funzione chiave nella regolazione dei ritmi biologici dell’organismo
- riduzione della noradrenalina, neurotrasmettitore prodotto sia
dalle surrenali che dal cervello sotto stress
- aumento della serotonina, neurotrasmettitore di grande
importanza per l’umore (antidepressivo), ma anche regolatore della fame e della
sazietà.
Ciò dimostra che sia le funzioni cerebrali che quelle
cardiovascolari vengono risparmiate a favore di uno stato di quiete, di
rilassamento e di lucidità mentale.
Dal punto di vista psicologico, la meditazione e la
visualizzazione:
- sviluppano la pazienza
- promuovono un atteggiamento non giudicante
- aiutano a vivere bene situazioni incerte e instabili
- stimolano a prendere contatto con se stessi e con la propria
coscienza
- accrescono la consapevolezza.
In definitiva durante la meditazione e la visualizzazione il
cervello riduce il suo sovraccarico, elimina i file inutili e riorganizza i
suoi circuiti.
RESET: Restare Estasiati Senza Esserne Turbati!
Infatti disponiamo, come un computer, di varie periferiche fisiche
che ci permettono di comunicare con il mondo.
La differenza tra noi ed il computer sta nel fatto che il computer
dispone di un cervello e noi anche di una mente; il computer ha una propria
esistenza, noi abbiamo anche una auto-coscienza, o coscienza della nostra
esistenza.
La mente è la più misteriosa entità con cui l’uomo abbia mai avuto
a che fare, fusione alchemica di conscio e inconscio, di passato e futuro, di
visibile e invisibile, di qui e altrove.
L’auto-coscienza è quella facoltà di cui la mente umana dispone
per riflettere su se stessa, la possibilità di auto-osservazione.
I pensieri sono il tramite attraverso cui auto-coscienza e mente
si scambiano informazioni, le quali sono veicolate, per mezzo delle sensazioni,
tra la mente e il corpo: questo movimento genera le emozioni (ex – movēre, muoversi verso l’esterno).
4.3 Agopuntura
Il medico è solo il servo della
natura, non il suo padrone. E’ quindi opportuno che la Medicina segua la
volontà della Natura.
Paracelso
Tra tutti i sistemi terapeutici genericamente definiti naturali o non
convenzionali,
l'Agopuntura è certamente quella più conosciuta e diffusa nel
mondo occidentale, tanto da essere insegnata nelle università di molti paesi
europei e praticata correntemente da un gran numero di medici, sia in campo
privato che ospedaliero.
Essa costituisce una delle tecniche terapeutiche fondamentali
utilizzate dalla medicina cinese e risulta pertanto ispirata agli stessi
concetti teorici della filosofia Taoista che ne costituiscono il fondamento
(teoria energetico-filosofica): il TAO, principio fondamentale dell’Universo, è
l’origine e la fine di tutto ciò che esiste.
Le sue origini sono molto antiche, forse risalgono all'età della
pietra: la tradizione ci porta nel regno dei miti facendola risalire alla
stessa comparsa dell'uomo sulla terra e la lega alla leggenda di un cacciatore
sofferente di sciatica che, colpito casualmente da una freccia, scagliata
erroneamente da un compagno, in un punto situato vicino al malleolo esterno
(Kun Lun - V60), guarisce dal suo male.
Le prime evidenze sicure dell’uso dell’agopuntura nella pratica medica
si ebbero a partire dall’VIII secolo a, C., quando, per la prima volta negli
scritti di questo periodo, appare il termine Yi, a indicare il medico e la
medicina. In questo ideogramma, che sostituisce quello precedente di Wu, che
indicava il mago e lo stregone, sono rappresentate delle “armi appuntite” la
cui interpretazione più calzante è quella che le assimila ai sottili aghi da
agopuntura.
E’ verosimile che, prima ancora dell'uso di droghe o farmaci, gli
sciamani delle varie tribù abbiano curato le malattie con aghi formati da
schegge di pietra appuntite, o altri materiali facilmente reperibili, quali
schegge d'osso e di bambù (confermato da ritrovamenti archeologici). Dopo la
scoperta dei metalli anche gli aghi vennero forgiati, in rame prima e in ferro
poi.
Risalgono forse a 2.500 anni a.C. i nove tipi di aghi
tradizionali, descritti nel primo capitolo del Nei Jing, primo trattato di
medicina cinese, opera, forse, del mitico Imperatore Giallo Huang Di.
La diffusione dell'Agopuntura al di fuori dei confini cinesi avvenne,
probabilmente durante le migrazioni dei Mongoli e molta parte hanno avuto,
intorno alla metà del 1800, i missionari della Compagnia del Gesù; ma si deve
soprattutto a Soulié de Morant, non medico, ma appassionato sinologo,
funzionario dell'ambasciata francese in Cina, la prima grande divulgazione
della metodica in Europa, grazie specialmente al grande trattato
sull'Agopuntura da lui stesso scritto negli anni cinquanta del secolo scorso.
Se da un lato le evidenze terapeutiche dimostravano l’efficacia
dell’agopuntura, il mondo accademico occidentale faceva fatica ad accettarla
perché le configurazioni energetico-anatomiche con le quali veniva presentata,
apparivano a dir poco immaginifiche e fantasiose, non coincidendo affatto con
le conoscenze e con le certezze della fisiologia fino ad allora acquisite.
Ma, nonostante il profondo scetticismo e l’inossidabile ostilità da
parte di alcuni a causa proprio delle sue origini soffuse di leggenda e delle
sue concezioni filosofiche, finalmente questo problema della mancanza di
coincidenza tra il contesto dell’efficacia e il contesto della giustificazione
è stato risolto grazie a intensi anni di studi e di ricerche che autorizzano il
suo riconoscimento, avendola dotata di una veste moderna, in accordo con i
canoni classici della scienza, che rende possibile oggi enunciare una Teoria
occidentale-scientifica che, con dati provati e incontrovertibili, dimostra le
sue azioni: l'Agopuntura agisce aumentando l'attività e la produzione di
endorfine ed encefaline, sostanze endogene morfino-simili, che hanno funzione
di modulazione del dolore e agiscono sia a livello centrale che periferico,
legandosi specificamente ai recettori oppioidi; esse hanno anche una notevole
azione antiansia e antidepressiva, che spiegherebbe il suo notevole effetto
rilassante; l’Agopuntura, inoltre, riduce la liberazione di istamina, uno dei
mediatori chimici responsabili delle reazioni allergiche, migliora la
modulazione del sistema neurovegetativo (simpatico e parasimpatico).
Il trattamento consiste essenzialmente nell'infissione di aghi
d'acciaio filiformi in particolari punti epidermici del corpo, corrispondenti
ai principali organi interni o a funzioni organiche; tali punti sono situati
lungo il percorso dei meridiani, gli invisibili canali energetici che
percorrono il corpo sia in superficie che in profondità e in cui scorre il Qi.
La stimolazione di tali punti riarmonizza blocchi, carenze o eccessi
energetici, riportando progressivamente l’organismo al suo equilibrio ottimale.
Le sue indicazioni sono molteplici, in particolare nella terapia del dolore, negli stati di
ansia, di stress, nelle malattie di origine psicosomatica, nella medicina preventiva.
Il saggio non cura gli uomini quando
essi sono già ammalati, ma fa in modo di prevenire la comparsa delle malattie.
Detto
cinese
4.4 Reiki
Per oggi non ti preoccupare
Per oggi non t’inquietare
Onora i genitori, i maestri e gli anziani
Guadagna da vivere onestamente
Mostra gratitudine a tutti gli esseri viventi.
I
Principi del Reiki
Dobbiamo a Mikao Usui, monaco cristiano giapponese, professore di
teologia all’Università di Kyoto alla fine del secolo scorso, la scoperta di
questa antica scienza.
Egli non solo ritrovò le chiavi per interpretarla ma, dopo lunghi
anni di esperienza e di peregrinazioni, creò i presupposti per trasmetterla e
diffonderla.
Lasciato l’insegnamento universitario, egli viaggiò per molti anni
in tutto il Giappone e in tutta l’America, visitando un monastero dopo l’altro;
studiò i sutra sanscriti, antichi precetti tibetani che risalgono a 2500 anni
or sono, incontrò monaci e abati, senza nessun risultato. Finché, in un
convento di monaci zen, a Kyoto, nel “Sutra del loto” trovò le informazioni
sulle capacità terapeutiche che cercava: si trattava di simboli sacri che egli
però non era ancora in grado di decifrare e di comprendere. Passò molti anni a
studiare, conversare, digiunare e meditare al fine di trovare risposte alle sue
domande… fino a che, una notte, ebbe l’illuminazione e con essa la comprensione
dei simboli.
Da quel momento, consapevole di essere divenuto uno strumento di
guarigione attraverso l’energia universale ricevuta, che lui chiamò REIKI, dedicò
tutta la sua vita a trasmettere e diffondere la pratica guaritrice.
Il metodo è fondato sul concetto che l'uomo è indissolubilmente
collegato con l'universo e che l'energia che tiene in vita il macrocosmo è in
continua connessione con la forza vitale di ciascun individuo.
L'uomo non è solo un corpo fisico, ma è soprattutto
"energia" e comunica con gli altri uomini e con il mondo intero
"energeticamente", con la gestualità, le emozioni, le parole, i
pensieri, cioè con l'espressione vibratoria dei corpi sottili o corpi
energetici – eterico, emotivo, mentale, astrale, ecc... –, che con le loro
diverse frequenze vibratorie costituiscono il campo elettromagnetico attorno al
corpo fisico.
L'energia scorre lungo dei canali o nadi, di cui i principali, Ida
e Pingala, sono posti lungo la spina dorsale, e si concentra nei sette chakra
(ruote o dischi), veri e propri fulcri posti uno sopra l'altro in una colonna
energetica che va dal coccige alla sommità della testa.
Ogni chakra è collegato a un gruppo di organi, a un plesso
nervoso, a una ghiandola endocrina e a particolari emozioni o forme-pensiero, è
caratterizzato da un elemento (terra, acqua, fuoco, aria, etere) da un colore
(colori dell'iride) e da un
suono (le sette note del pentagramma).
Dal punto di vista psichico, i chakra corrispondono alle aree più
importanti della nostra esistenza: sopravvivenza, sessualità, potere personale,
capacità di dare e ricevere amore, comunicazione, immaginazione, spiritualità.
Reiki è una parola giapponese che sta ad indicare la connessione
tra REI, l'energia vitale universale e KI l'espressione individuale di tale energia.
Attraverso tale connessione si attiva un processo globale di
guarigione naturale, in cui la riarmonizzazione rimanda a un significato più
profondo che va al di là della risoluzione dei meri problemi fisici o emotivi,
riconquistando il senso più autentico della propria esistenza, imparando ad
accettare e interpretare il significato di ogni accadimento.
Al pari delle altre soluzioni olistiche, il Reiki parte dal
presupposto che la Realtà è una e una sola, al di là delle diverse
manifestazioni apparenti.
Quando si pratica il Reiki si diventa canali naturali che
accolgono il flusso energetico del Cosmo e lo trasmettono a chi riceve il
trattamento.
Esistono vari tipi di trattamenti, distinti tra loro per livelli e
modalità di esecuzione, ma tutti hanno in comune il fatto che chi effettua il
trattamento utilizza le proprie mani come strumento di trasmissione
dell’energia.
Il Reiki è un metodo semplice, si apprende facilmente, non
necessita di alcuna qualifica professionale, non è intriso di dogmi, atti di
fede né di regole ferree e assolute. Ciò che lo distingue dalle altre pratiche
è la necessità di rituali di iniziazione, o meglio di attivazione, attraverso i
quali i sette Chakra principali vengono liberati dalle ostruzioni eventualmente
presenti.
Da questo momento in poi si dispone della facoltà di divenire
canali per la trasmissione dell’energia universale, fonte inesauribile, alla
quale possiamo continuamente attingere, senza per questo essere depauperati
della nostra energia.
A trarre beneficio dai trattamenti è sia chi vi si sottopone sia
chi li effettua: i corredi energetici di entrambi ne risultano riarmonizzati.
Non vi sono figure di maestri o guru a cui fare riferimento, da
seguire o venerare, tranne il nostro cuore. La stessa storia delle sue origini
è da molti considerata più sotto il profilo strettamente simbolico che
oggettivo, poiché le informazioni sul suo ipotetico scopritore sono abbastanza
nebulose: in giapponese, infatti, con il nome “Ussui” viene designata la figura
del Monaco Itinerante, che vaga con la lampada alla ricerca della verità… una
specie di Diogene che, in pieno giorno e con una lampada accesa, cercava l’Uomo.
Nello stato di REI – KI, cioè di connessione, l'energia fluisce liberamente
attraverso i canali energetici e i chakra, avviando una profonda guarigione a
livello fisico, mentale e spirituale. Esso utilizza inoltre alcuni simboli che,
come ogni forma – pensiero, sono diventati veri e propri archetipi, grazie al
fatto di essere state ripetuti consapevolmente da parte di un gran numero di
persone, da molto tempo.
Il ReiKi può essere considerato un metodo terapeutico che completa
e sostiene altre tecniche di cura, medica o psicologica, complementare o
tradizionale. Esso infatti attiva le capacità di guarigione del paziente,
rinforza il sistema immunitario, riequilibra il sistema endocrino, scioglie
blocchi e tensioni.
Da un punto di vista psichico, sviluppa la forza e la
determinazione, sostiene nel processo di crescita personale e promuove la
reintegrazione e il riallineamento del complesso corpo-mente-spirito.
Le soluzioni fino a qui proposte e solo sommariamente descritte
non hanno la pretesa di essere considerate la panacea di ogni male: esse
rappresentano solo alcuni degli strumenti che l’uomo contemporaneo ha a
disposizione per affrontare un’esistenza sempre più lontana dai ritmi di vita
naturale: aumentano, così, le possibilità di mantenere un contatto con la
propria e più intima essenza, nonché di migliorare le proprie relazioni con gli
altri e con l’ambiente esterno.
CONCLUSIONI
Molti secoli fa l’uomo conobbe il fuoco, imparò a muoversi in
piccoli gruppi da un territorio all’altro in cerca di migliori condizioni di
vita, nonché a seguire gli sciamani nel mondo misterioso degli spiriti.
Oggi utilizziamo l’energia atomica, abbiamo imparato a esplorare
nuovi pianeti alla ricerca di mondi paralleli e seguiamo maestri e guru di
varie estrazioni e tradizioni, per scoprire nuove dimensioni della mente e
dello spirito.
Negli ultimi trecento anni questo viaggio attraverso la conoscenza
ha proceduto con passi accelerati e l’Umanità, nei momenti dei grandi risvegli,
occorsi nei secoli, ha ampliato a un ritmo sempre più incalzante le sue comprensioni
sul mondo, sul sé e sulla sfera del Trascendente, acquisendo una visione sempre
più chiara dell’Universo che si evolve in relazione al Divino.
A ogni svolta storica, la sua consapevolezza si è ampliata, sono aumentate
le sue possibilità di sviluppo, così come sono cresciute per quantità e qualità
le sue pratiche trasformatrici.
L’anelito dell’uomo a una vita più ampia e completa e la sua
capacità di raggiungerla sono la parte emergente della storia dell’evoluzione.
Ma, nonostante tutto ciò, e malgrado le enormi risorse della
medicina moderna, l’uomo non è sano.
Si ha piuttosto la tendenza a considerare la vita come il viaggio
di un povero indifeso pellegrino, che incomincia all’età di venti o trent’anni a
ingerire sostanze stimolanti, continua intorno ai quaranta o cinquanta con i
tranquillanti, si trascina penosamente verso i sessanta con gli analgesici e
arriva istupidito ai settanta in preda a una incurabile demenza senile.
La perdita di quei principi fondamentali che contribuiscono al
mantenimento dell’equilibrio e dell’armonia ci ha impedito di comprendere
adeguatamente il significato di “salute” e ci ha fatto dimenticare le origini
divine dell’uomo.
La salute è molto più che l’assenza di malattie; significa vivere
in un modo che mira a promuovere sentimenti di comunione e solidarietà, creando
così una sensazione di felicità spirituale che effettivamente aiuta a prevenire
le malattie.
Vedere il mondo in un granello di
sabbia
E il cielo in un fiore di campo,
Tenere l’infinito nel palmo della tua
mano,
E l’eternità in un’ora.
William Blake
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Reiki energia e
guarigione, TEA, Milano 2003
NOTE
INDICE
INTRODUZIONE
1. IL COUNSELOR
1.1 Dalla psicoterapia al counseling
1.2 La formazione del counselor olistico
2. LA RELAZIONE D’AIUTO
2.1 Verso un ascolto a misura d’uomo
2.2 Differenze tra percorso terapeutico e percorso di crescita:restituire il soggetto a sé stesso
3. LA VISIONE OLISTICA
3.1 Il concetto tradizionale di malattia in rapporto a quello di salute olistica
3.2 Tutto è Uno
4. SOLUZIONI OLISTICHE OGGI
4.1 Metodo Simonton
4.2 Meditazione e Visualizzazione
4.3 Agopuntura
4.4 Reiki
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
NOTE